domenica 30 dicembre 2012

Il mito di Procne in casa Bodini



Era la casa dei Fodri, ma soprattutto è ora un gioiello artistico inaspettato, nascosto nel centro di Cremona. In via Beltrami 16 si era iniziato semplicemente con il rimuovere i controsoffitti dello studio al piano terreno. Oggi, alla conclusione dei lavori diretti da Giovanni Puerari, architetto e progettista dell’intervento, ci troviamo di fronte al salone di ricevimento di una dimora nobiliare dei primi anni del Cinquecento, ottenuto con la demolizione dei precedenti locali quattrocenteschi, l’innalzamento dei solai, la realizzazione di nuove finestre, l’inserimento di un porticato a colonne nel cortile, l’esecuzione di affreschi sulle pareti. Purtroppo, nonostante gli sforzi delle due restauratrici, Alberta Carena e Sandra Ragazzoni, incitate e sostenute dai proprietari, Anna Puerari Bodini e Angelo Bodini, poco si è salvato dalla distruzione, ma quel poco è di una bellezza straordinaria. Un artista ancora ignoto, ma sicuramente di mano felice e non estraneo alla temperie culturale di quegli anni, ha dipinto sulla parte superiore delle pareti del salone scene di chiaro stampo rinascimentale che si sono poi rivelate la raffigurazione del mito di Tereo e Procne così come riportato, nella ricostruzione offerta da Luca Lupatelli, nelle metamorfosi di Ovidio. Un soggetto raro, ma già raffigurato nel 1510-1511 da Sebastiano Del Piombo nelle parti superiori della sala di Galatea nella villa Farnesina di Roma, e, più tardi, verso la fine del secolo, ripreso in numerose incisioni. Il mito domina e pervade la parte alta del salone, mentre le zone sottostanti erano originariamente decorate con motivi architettonici con marmi e bugnati colorati fino a circa due metri e mezzo da terra, di cui restano però pochi frammenti. I protagonisti della vicenda si muovono su uno sfondo neutro, su un registro fortemente dinamico enfatizzato dai volti sgomenti, dall’ampia gestualità, dalle vesti gonfiate dal vento, ma non privi di eleganza sottolineata dalle ricche vesti e dalle acconciature femminili. La drammaticità della vicenda è  solo parzialmente temperata dalla compostezza manierata di qualche figura femminile, anche se poi basta la crudezza della testa di fanciullo mozzata mostrata al padre ignaro dalla madre ormai refrattaria a qualsiasi emozione, per riportarci all’efferatezza del dramma che si sta consumando, in una sequenza narrativa quasi cinematografica, davanti ai nostri occhi. Il mito è stato ricostruito grazie a quell’uomo dalla testa di uccello che altri non è se non Tereo. Ce ne parla Ovidio nelle Metamorfosi. Atene, assediata da non meglio specificati barbari, è stata liberata con l'aiuto di Tereo; in segno di riconoscenza, Pandione gli concede in sposa Procne, in un matrimonio in cui però a officiare non sono Giunone o Imeneo, ma le Eumenidi. Tereo e la moglie tornano dunque in Tracia, dove nasce il loro figlio Iti. Passano cinque anni felici, finché Procne prega Tereo di andare a Atene, a chiedere al vecchio Pandione di lasciare venire in Tracia Filomela, sua sorella, di cui sente grande mancanza. Tereo fa come chiede la moglie, ma appena vede Filomela ad Atene viene preso da una sconfinata passione per lei. Pandione non si accorge di nulla e permette a Filomela di lasciare Atene, sotto la promessa di un rapido ritorno, sebbene abbia dei presagi. I presagi sono ben motivati: appena sbarcati, Tereo porta in una stalla Filomela e la violenta. In preda alla disperazione, Filomela lamenta la sua condizione di anima ferita e colpevole contro la propria volontà, assicurando che rivelerà quanto è avvenuto agli uomini, ai monti, agli dèi. Tereo, preso da rabbia e paura, le mozza dunque la lingua con spada e tenaglia. Dopodiché si reca nuovamente da Procne, con la falsa notizia della morte di Filomela. Passa un anno e Filomela finalmente riesce ad ingegnarsi di scrivere su una tela la denuncia di quanto ha subito e a farla portare da una serva a Procne. Procne, scoperto il tutto, sfrutta la notte seguente, quella in cui la Tracia celebra i baccanali, per liberare la sorella. Quindi, in cerca di vendetta, si sfoga su Iti, cucinandolo per Tereo. Dopo che questi ha mangiato, ignaro di tutto, la carne di suo figlio, Filomela salta fuori sozza di sangue e gli tira in faccia il capo di Iti. Tereo si getta dunque dietro di loro, ma tutti e tre si trovano mutati in uccelli: Tereo in upupa, Filomela in rondine, Procne in usignolo.
Il tema delle metamorfosi torna nel vicino studiolo, ma la rappresentazione, probabilmente per un cambio di mano, diventa più convenzionale. Se resta al momento ignoto il nome dell’artista, grazie alle ricerche archivistiche condotte da Gianantonio Pisati siamo oggi in grado però di conoscere i committenti. Si tratta dei fratelli Pietromaria, Baldassarre e Gerolamo Fodri, figli di Guglielmo. Nel 1476 Bartolomeo Fodri aveva lasciato in eredità il palazzo avito al secondogenito Benedetto, costringendo il primogenito Guglielmo, di fatto diseredato, a trasferirsi nella vicina di San Donato nel palazzo che, ristrutturato nel 1911, è diventato prima la sede della Camera di Commercio, poi delle Cooperative e della Confesercenti in via Beltrami 18. Ai primi del Cinquecento i figli di Guglielmo Giovanni, Baldassarre, Pietro Maria e Gerolamo si divisero il patrimonio paterno: il primo rimase nel palazzo di famiglia con la maggior parte delle sostanze, gli altri tre acquistarono il palazzo confinante, trasferendovisi stabilmente nel secondo decennio del secolo. In seguito alla morte dei fratelli Pietro Maria rimase a partire dal 1524-1525 unico proprietario dell’immobile. La nobile famiglia abitò qui ininterrottamente fino al 1559 ed è in questo lungo arco di tempo che va collocata la realizzazione degli affreschi del salone e del camerino attiguo. Un ciclo splendido e sconosciuto, che costituisce un’altra testimonianza del grande secolo del manierismo cremonese.
Il linguaggio formale è evidentemente quello del primo Cinquecento, nella monumentalità piena e risoluta perfettamente risolta nello svolgimento narrativo, con inflessioni cremonesi che affiorano in qualche esasperazione quasi disarticolata dei movimenti, in certe grafie insistite sui contorni, nei passaggi a volte bruschi del chiaroscuro. Elementi che si può provare a confrontare con certi fatti che ormai si cominciano a conoscere bene in città agli esordi del secolo, tra Galeazzo Campi e Alessandro Pampurino, o tra Tommaso Aleni e altri 'minori' come Bernardino Ricca e Lorenzo de Beci. Sembra infatti di poter incominciare a sistemare il nostro misterioso artista, per il quale manca qualsiasi appiglio documentario, nelle coordinate di fatti pittorici che a Cremona si dipanano tra la conoscenza di novità ormai moderne di assoluta importanza - Boccaccino, Gianfrancesco Bembo, Altobello - il cui palcoscenico principale è l'inizio della decorazione delle pareti all'interno del Duomo, e dall'altra parte una persistenza di formule ancora tradizionali che implicano una certa rigidità dei gesti e delle pose, come anche ad esempio una sorta di ripetizione di fisionomie standard, che ben si notano ricorrenti anche nel ciclo in questione.
Non è affatto agevole ovviamente proseguire su questo terreno e la frammentarietà del ciclo riscoperto, accentuata dal restauro incompleto, non facilita il discorso. Sembra emergere però come vena caratterizzante dell'autore di queste scene quella di un temperamento bizzarro e in un certo senso discontinuo, che non arriva a far supporre l'intervento di più personalità di artisti nel lavoro, ma si sviluppa in una molteplicità di soluzioni diverse che denota una certa curiosità quasi sperimentale, pur non se non sostenuta da una qualità sempre al massimo livello. Queste soluzioni hanno fatto pensare a Francesco Casella, un eccentrico poco noto la cui personalità è stata sostanzialmente ricostruita da Marco Tanzi a partire dalle due sole opere firmate: la pala del 1510 oggi al Museo Borgogna di Vercelli e l'altra del 1517, arrivata invece a Brera. Nei nostri affreschi, secondo Giovanni Vaagussa, ricordano il Casella alcuni volti barbuti e corrucciati, caratterizzati anche dall'invadenza di alcuni elementi accessori, come le grosse corone sul capo. Certamente un Casella semmai più vicino alla seconda delle due pale d'altare, dove si sperimenta, in una scena movimentata coma la Lapidazione di Santo Stefano, una serie di gesti dinamici e concitati, di ascendenza nordica e dureriana in particolare, molto accentuati eppure un po' goffi nella eccessiva rigidità: qualcosa di simile a quanto accade ad esempio nella iterazione delle pose esagerate di Deucalione e Pirra, nella scena loro dedicata nella stanza più piccola.
Anche qualche altro elemento potrebbe far propendere per il poco noto Casella, come ad esempio il gusto per la ripetizione di personaggi perfettamente di profilo, quasi ritagliati sullo sfondo e che faticano un po' a trovare una vera tridimensionalità, apparendo come se fossero sagome piatte. Ma si potrebbe comunque notare negli affreschi ora riscoperti, in particolare nelle scene sulla voltina dello 'studiolo', una modernità ancora maggiore che accentua lo slancio dei movimenti e la torsione esasperata, quasi già manierista, di certe soluzioni anatomiche, come ad esempio nella figura di Giove che si infila il neonato nella carne viva della sua stessa coscia. Qualcosa che dovrebbe far pensare ad un Casella che ha già cominciato a ragionare sulle prime prove di Pordenone in Cattedrale, dunque tra il 1520 e il 1522: guardando per esempio il celebre profilo della Maddalena urlante pordenoniana preso a modello per la testa della donna che dovrebbe essere nelle intenzioni altrettanto stravolta come quella che regge in mano la testa mozza del figlio. E altri elementi potrebbero far pensare ad una visita a Mantova: una ipotesi che servirebbe a spiegare la curva del mantello gonfiato dal vento della figura femminile orante, sempre nel cosiddetto 'studiolo', secondo una soluzione che è prima antica e poi mantegnesca, ma che in verità potrebbe essere anche arrivata tramite qualche placchetta o incisione. Insomma si dovrebbe pensare ad un Casella attivo dopo il 1517, anno a partire dal quale, fino ad ora, non si avevano altre sue notizie; e che lavorerebbe qui approssimativamente attorno al 1520-25. Cioè in un momento che ormai non può prescindere dagli esordi di Giulio Campi, al quale in effetti potrebbero ben rimandare le soluzioni più fluide dei panneggi, rifluenti in pieghe ondulate, con alcune invenzioni come la manica vistosamente arrotolata, che era già nell'Allegoria della Vanità, oggi al Museo Poldi Pezzoli di Milano, che Giulio firmava e datava nel 1520.E proprio all’ambito di Bernardino Campi potrebbero riferirsi certe figure femminili e maschili che costiuscono dei veri e propri calchi dei prototipi che stava elaborando quell’artista. Il che sposterebbe i nostri affreschi verso la metà del secolo.

domenica 16 dicembre 2012

Il convento di fra Cristoforo


Tutti conosciamo il personaggio di Fra Cristoforo nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. L'esistenza di questo sacerdote cappuccino è documentata solo dai primi di giugno del 1630, cioè dal momento della sua ammissione, all'epoca della peste, nel lazzaretto di Milano, in cui i Cappuccini, sotto la guida del padre Felice Casati da Milano, svolsero, perdendovi spesso la vita, un importante servizio di assistenza materiale e spirituale degli appestati. Pochi giorni dopo, il 10 giugno, Cristoforo moriva, "di peste, stimata da lui catarro, ma dagli altri tutti giudicata vera peste, avendo servito con molto fervore di carità et essempi religiosi a' poveri apestati". Nella sua prima apparizione nel Fermo e Lucia il Manzoni accenna ai suoi natali cremonesi. Molti studiosi hanno proposto l'identificazione di Cristoforo con il nobile cremonese Lodovico Picenardi, figlio di Giuseppe e di Susanna Cellana, battezzato il 5 dicembre 1568, simile al Lodovico manzoniano per la giovinezza audace e scapestrata. Conosciamo la storia: dopo essersi scontrato con un nobile e averlo ucciso in un duello in cui perde la vita anche Cristoforo, servitore cinquantenne molto amato da Lodovico, deve rifugiarsi in un convento di Cappuccini Le due tragiche morti avviano alla fine un processo già iniziato di conversione e spingono il giovane al cambiamento di vita cui aveva già altre volte pensato. Chiede quindi di essere accolto come postulante al convento stesso dove si è rifugiato. La sua decisione permette ai Cappuccini di evitare il prevedibile imbarazzo di difendere il diritto di asilo di un nemico di una potente famiglia, e alla famiglia dell'ucciso l'imbarazzo di scontrarsi con la Chiesa per ottenere vendetta. Nella soddisfazione generale Ludovico viene quindi rivestito del saio. Memore del suo vecchio e amato servitore, come nome religioso Lodovico sceglierà il nome di Cristoforo. Il convento di Fra Cristoforo esiste ancora. E’ un vecchio stabile ormai in rovina posto all’angolo tra via Mantova e via, manco a dirlo, Dei Cappuccini. Il complesso, che dovrebbe essere in teoria ristrutturato, ma di cui è certa la demolizione, è costituito da una serie di basse abitazioni, con alcune arcate tamponate, risalenti con ogni probabilità all’ultima ricostruzione del convento nei primi anni del Settecento, in seguito trasformato in una fabbrica di birra al momento della soppressione.
Un angolo di storia, dunque, che però ha perso qualsiasi smalto, ed ora è ridotto ad una serie di abitazioni e muri degradati dal tempo. Poco lontano dalla porta bresciana, oggi porta Venezia, esisteva da secoli una piccola chiesa appartenente ai benedettini, che vi avevano istituito un priorato chiamato dei Santi Dodici Apostoli. Nel 1566, dopo aver ricevuto l’approvazione canonica della Santa Sede, vi si trasferì la nuova famiglia francescana dei Cappuccini. Dal momento che la chiesetta era quasi diroccata i nobili ed il popolo cremonese si diedero da fare con offerte per ricostruirla. Sorse così il convento e fu riedificato il piccolo edificio sacro che venne consacrato dal vescovo Sfondrati prima di salire al soglio pontificio. Nel 1611 aggregata al convento, per iniziativa di fra Fedele cappuccino, venne istituita anche una farmacia al servizio dei poveri, che fu chiamata col nome di “Santa Corona Serafica”, situata nei pressi della chiesa di San Vincenzo. L’istituzione era amministrata da tre nobili della città eletti nel gennaio di ogni anno. Il convento e la chiesa dei Dodici Apostoli fu anche al centro dell’assedio che per ben 83 giorni nel 1648 i francesi posero alla città. Più tardi, nel 1655, il convento rischiò di essere demolito una prima volta quando, decretata la fondazione di nuove fortificazioni che avrebbero dovuto aggiungersi alle mura della città già esistenti, furono abbattuti i borghi posti fuori dalla cinta muraria di porta Venezia. Ma dopo mezzo secolo,  nel 1705, durante la guerra di successione spagnola, ai cappuccini furono concessi solo tre giorni di tempo per sgombrare il convento, su ordine del governatore di Cremona, che a sua volta eseguiva una direttiva del governatore francese dello Stato di Milano. Con il pretesto che avrebbe potuto servire all’armata imperiale guidata da Eugenio di Savoia il convento venne abbattuto in tutta fretta. Alcuni dei religiosi trovarono rifugio in altri conventi della provincia, mentre sei di loro rimasero in città alloggiati per un anno in casa del conte di San Secondo, poi presso l’Arcidiacono De Cesaris. Passata l’ultima bufera i cappuccini iniziarono a ricostruire la loro sede e sotto la guida di padre Angelo Felice da Milano, aiutato da altri confratelli che avevano esercitato nel mondo civile il lavoro di muratore, il 18 ottobre del 1709 riuscirono a completare la nuova sede ed insediarvi una nuova Comunità. Per un secolo durò la pace e la tranquillità, fino a quando nel 1810 il convento venne definitivamente soppresso. Nel 1841 ai cappuccini venne offerto dal marchese Persichelli il soppresso convento di San Luca, che già aveva ospitato Amadeisti e Osservanti, che potè essere aperto nella primavera del 1843, dopo l’indispensabile riconoscimento da parte dell’Imperatore. Nel 1868, nonostante la ventilata soppressione, i cappuccini riuscirono a conservare il convento di San Luca che, però, nella sua grandiosità, poco si confaceva alla regola, per cui nel 1881 lo cedettero ai Barnabiti. Col compenso ricavato dall’alienazione l’ordine iniziò la costruzione dell’attuale convento e della chiesa di via Brescia, che fu dedicato a San Giuseppe. L’ingresso ufficiale avvenne nel 1883.
Dell’originaria sede nei pressi della Pippia è rimasto poco: un muro nei pressi del supermercato Lidl ed un pozzo, dove nel corso di scavi avvenuti negli anni scorsi venne rinvenuta una grande quantità di ceramica cinquecentesca.



domenica 9 dicembre 2012

Il tesoro di Nerone


I frammenti del servizio in porfido rosso di Nerone

Quel gran pettegolo di Svetonio forse aveva ragione. Aveva ragione quando raccontava di come quel pazzo di Nerone, dopo aver dato fuoco a mezza Roma per costruirvi la sua Domus aurea, l’aveva poi infarcita di ogni sorta di preziosità artistiche, compreso un ineffabile servizio in porfido di cui si era persa già ai suoi tempi qualsiasi traccia. Suppellettili rarissime, realizzate in un materiale estremamente difficile da lavorare, uniche nella loro preziosità e degne per questo di arredare la sontuosa dimora imperiale. Ebbene tracce di quel servizio, quattro frammenti estremamente significativi, visto che un altro di identica fattura è conservato solo nei musei di Berlino, sono stati forse ritrovati in una stanza di quella che ormai viene definita dagli archeologi la “domus degli uccelli” di piazza Marconi. La domus degli uccelli presenta intatta un’unica stanza, appartenente al gruppo degli ambienti di rappresentanza, scampata miracolosamente all’incendio appiccato dai flaviani nell’autunno del 69 dopo Cristo: sulle sue pareti affrescate in azzurro, uno dei colori preferiti dal mitico Fabellus, il pittore di Nerone, campeggiano centinaia di volatili. Era sicuramente l’ambiente più lussuoso della villa che, a sua volta, occupava con il giardino la superficie destinata all’intera insula. La domus doveva essere arredata con mobili degni dei suoi abitanti: oltre agli oggetti che aiutano alla ricostruzione della vita di tutti i giorni ci sono oggetti di gran lusso che permettono di intravedere un tenore di vita davvero di altissimo livello. Lo scavo della stanza 8 ha restituito alcuni oggetti straordinari tra cui frammenti di due recipienti (un piatto e un vassoio forse per la toeletta) in porfido egizio, si tratta di reperti rarissimi che provengono normalmente da ambienti legati alla famiglia imperiale di cui ci sono pochissimi esemplari fuori contesto cioè non databili o collocabili cronologicamente. I pezzi di Cremona sono gli unici databili con precisione poiché si trovano sotto gli strati della distruzione del 69 d.C., nella casa di età augustea. Sempre da quella stanza proviene un frammento del panneggio di una statua a grandezza naturale di fattura raffinatissima. Il servizio in porfido potrebbe provenire proprio dalla dimora neroniana. Sarebbe stato Otone, sfortunato protagonista dell’anno funesto dei quattro imperatori, a portarle con sé da Roma, dopo aver ricevuto la corona imperiale dal Senato, nel quartiere generale di Brescello, dove il 16 aprile del 69, avuta notizia della sconfitta nella prima battaglia combattuta alle porte di Cremona, si suicidò. Il tesoro di Nerone, prelevato da Otone dalla domus aurea, per la quale era presumibilmente stato forgiato, sarebbe stato portato a Brescello e da qui, dopo il suicidio dell’imperatore sconfitto, da Vitellio nella villa di piazza Marconi, prima che questo, a sua volta, si recasse a Roma per ricevere l’incoronazione da parte del Senato. Che Otone potesse avere con sé parte del corredo imperiale è giustificato anche da un altro particolare. La notte in cui si suicidò bruciò tutte le lettere che potevano compromettere i suoi amici, consigliò i soldati di affrettarsi a fare atto di sottomissione a Vitellio, non volle dare ascolto agli incoraggiamenti di chi lo incitava a resistere, e, soprattutto, scrisse una lettera alla sorella ed un’altra a Statilia Messalina, vedova di Nerone, che aveva intenzione di sposare. Otone apparteneva ad una antica e nobile famiglia etrusca residente a Ferento in Etruria, interessante sito archeologico nei pressi di Viterbo. Sembrava inizialmente essere uno dei più incauti e stravaganti giovani che circondavano Nerone e questa legame, che poi si protrasse anche dopo il suicidio dell’imperatore, fu interrotta bruscamente nel 58 a causa di una donna. Poppea era stata presa al marito da Nerone per farne la sua amante. La decenza richiedeva che lei fosse maritata e così l’imperatore la diede in moglie al suo favorito Otone convinto che non avrebbe avuto problemi da questi. Ma Otone si innamorò di lei e, quando venne il momento, rifiutò di mandarla a Nerone. Dopo minacce e appelli dell’imperatore, il matrimonio fu annullato ed Otone mandato come governatore nella remota provincia di Lusitania. 

Un altro personaggio chiave della vicenda è Cecina Alieno. Cecina Alieno era stato dapprima alleato di Servio Sulpicio Galba che, all’inizio del 68, aveva dato corso in Gallia alla prima ribellione contro Nerone. Il 19 giugno del 68 Nerone muore suicida, mentre in Spagna Galba recluta una nuova legione assegnata a Antonio Primo che, l’anno dopo, avrà un ruolo fondamentale nella distruzione di Cremona. Dopo aver ottenuto il titolo di Augusto Galba si dirige verso Roma, dove giunge in autunno. Nella capitale Galba non riesce a costruire attorno a sé un degno consenso e non riesce a consolidare neppure presso le legioni il suo potere, al punto che lo stesso Cecina suggerisce alle truppe a lui affidate di acclamare imperatore Aulo Vitellio, già comandante della regione militare del basso Reno e console nel 48.
A Roma la situazione precipita: il 15 gennaio del 69 Galba viene ucciso nel foro per mano del suo ex alleato Otone che ottiene subito l’investitura dal Senato dando origine ad una situazione paradossale. Gli imperatori sono a questo punto due: Aulo Vitellio impegnato in Gallia a reclutare un suo esercito; Otone, riconosciuto dal Senato, ma non dalle legioni della Britannia e del Reno, ed un terzo aspirante, quel Vespasiano che per il momento preferisce attendere defilato in Palestina lo svolgersi degli eventi. Ad Otone non rimane altro che cercare di difendere il suo titolo imperiale muovendo alla volta della Gallia Cisalpina, per affrontare da un lato l’esercito di Cecina Alieno e Fabio Valente, forte ormai di circa cinquantamila uomini fra legionari ed ausiliari, che si appresta a valicare il Gran San Bernardo per scendere nella Pianura Padana, e dall’altro per cercare di congiungersi con il resto delle truppe rimastegli fedeli nelle regioni danubiane. Muove dunque da Roma con circa 25.000 uomini e duemila gladiatori, con carriaggi e materiali con l’obiettivo di assestarsi lungo la sponda meridionale del Po, disponendosi a semicerchio tra Piacenza, all’incrocio tra la via Emilia e la Postumia, Brescello e Modena. E’ in questa fase che con ogni probabilità Otone, non confidando nella situazione, porta con sé parte del tesoro neroniano prelevato dalla domus aurea trascinandosi dietro anche quei senatori ritenuti inaffidabili che posizionerà poi nell’avamposto di Modena. Vitellio, dal canto suo, ha la preoccupazione di raggiungere il più presto Roma per impedire al suo avversario di rafforzarsi ed ottenere dal Senato quel riconoscimento che gli potrebbe consentire di gestire le risorse statali. Di fatto, però, bisogna prima assumere il controllo della Cisalpina, tappa obbligata per chiunque voglia dirigersi a Roma, cercando di impedire il ricongiungimento delle varie forze in campo. Cecina ha la fortuna di trovare la via più breve, favorito da una primavera precoce, che gli consente di giungere a Cremona, come detto, verso il 20 marzo. Vi si ferma e stabilisce la sua base operativa in un campo fortificato vicino alla città, fra la via Postumia e quella che conduce a Brescia. Per evitare di rimanere accerchiato tra le truppe di Otone che giungono a sud e quelle a lui fedeli provenienti dalle regioni del Danubio Cecina ai primi di aprile tenta di aprirsi un varco dando battaglia agli otoniani sulla Postumia, nei pressi della località chiamata Ad Castores, per la vicinanza ad un tempietto dedicato ai Dioscuri, ma la manovra si risolve in un massacro di ausiliari.

sabato 8 dicembre 2012

Il mistero della Vittoria Alata


Dov’è finita la vera Vittoria Alata di Bedriaco? Con ogni probabilità l’originale è proprio quello conservato allo Staatliche Museen di Berlino. Il mistero si  è riproposto a dieci anni di distanza dall’ultima comparsa della preziosa statua bronzea ritrovata negli scavi di Calvatone, quando, richiesta dall’Apic in vista dell’organizzazione della mostra sulla Postumia in Santa Maria della Pietà, ne venne rifiutato senza motivo il prestito. Oggi sappiamo con certezza che il manufatto conservato al museo Puskin di Mosca, che aveva destato le attenzioni dell’Apic, è solo una copia in galvanoplastica dell’originale, realizzata con ogni probabilità nel primo decennio del Novecento. Lo dimostrano le foto scattate da un turista cremonese, Ferdinando Giordano, in visita al museo moscovita nell’estate del 2007. La Vittoria alata è conservata in una sala dove sono esposte esclusivamente copie di originali famosi dell’antichità. Alla base una didascalia in cirillico e in inglese informa che si tratta appunto della copia di un originale conservato allo Staatliche Museen di Berlino. In effetti nel luglio del 2006, in occasione dei mondiali di calcio in Germania, il professor Martin Maischberger tenne una conferenza che aveva per oggetto i globi celesti, proponendo come esempio proprio la nostra statua cremonese. Eppure il museo berlinese ha sempre sostenuto che il simulacro della vittoria di Bedriaco fosse scomparso nel nulla durante il secondo conflitto mondiale e quella conservata nei depositi sia, anch’essa, solo una copia.
Ma facciamo un passo indietro nel tempo a più di trent’anni fa, quando inaspettatamente il caso venne proposto all’attenzione scatenando un putiferio. Nel marzo del 1977 il settimanale Epoca pubblicò un servizio sui weekend culturali degli operai sovietici, dove in bella evidenza veniva mostrata in una sala di un museo moscovita la Vittoria alata di Calvatone, uno dei pezzi più pregiati della collezione di antichità romane, finita lì non si sa come. Da allora non vi è più stata pace. A nulla sono valse le riassicurazioni dei funzionari nel classificare quel pezzo di eccezionale bellezza come una copia dell’originale conservato un tempo negli Staatliche Museen di Berlino, ma scomparso nel nulla durante la Seconda guerra mondiale. E negli anni sono aumentati i dubbi che, in realtà, l’esemplare del Puskin non fosse una copia. Diversamente perchè lo avrebbero esposto in una sala appositamente allestita per accoglierlo, fotografato con intorno gli operai sovietici in visita al museo nella loro giornata festiva? Perchè l’ambasciata sovietica, ancora in clima di guerra fredda, non ha  mai risposto alle lettere di chiarimento spedite con sollecitudine negli anni Ottanta, ignorando a bella posta la questione? Sta di fatto che quando l’Apic a sua volta inviò la richiesta alla direzione del museo moscovita per avere la Vittoria esposta alla mostra si sentì rispondere un bel “niet”. In realtà diciotto anni prima vi era stato un precedente che aveva fatto ben sperare. La scoperta della Vittoria alata di Calvatone ha infatti tutte le caratteristiche del giallo: il primo che la vide dopo la guerra fu, nell’agosto del 1980, Giuseppe Azzoni, da pochi mesi ex vice-sindaco, ma ancora amministratore comunale. Era tutto successo, quasi per caso, qualche anno prima. Un bel giorno l’assessore alla cultura del Comune di Bozzolo, Nello Calani, aveva appunto notato quel servizio sul settimanale Epoca del 23 marzo 1977 in cui si spiegava come gli operai sovietici trascorressero i loro fine settimana dedicandosi alla cultura. Una foto ne ritraeva un gruppo nella sala di un museo in cui campeggiava in bella evidenza una statua alata che l’appassionato di archeologia riconobbe subito come la Vittoria alata di Calvatone. Calani aveva avvertito subito Azzoni, in quel periodo vice-sindaco, che a sua volta aveva preso carta e penna e scritto ad Alfredo Puerari, allora direttore del museo civico Ala Ponzone: “Siccome sapevo che di questa statua si erano (col 1945- Berlino) perse le notizie - scriveva Azzoni - e vedendo anch’io una somiglianza impressionante mi sono procurato tre copie della rivista. A questo punto le chiederei cosa pensa della foto, se secondo il suo parere di esperto c’è la possibilità sopraddetta. In questo caso varrebbe senz’altro la pena, attraverso l’ambasciata o in qualche altro modo, ricercare di quale museo di Mosca si tratta, cosa tutt’altro che impossibile”. Puerari si ricordò allora di aver già visitato il museo d’arte antica di Mosca ma di averlo trovato chiuso. Rispose, tuttavia, che avrebbe fatto il possibile per saperne di più. In realtà, quando in quell’agosto del 1980 Azzoni si trovò a tu per tu con la Vittoria erano ormai passati tre anni senza ulteriori sorprese.  Giunto a Mosca per una visita di amministratori italiani della capitale sovietica, Azzoni prese l’occasione al volo e mostrò alla sua guida la foto di Epoca, e l’accompagnatore riconobbe subito la sala. Si trattava del museo di Belle Arti Puskin in via Volkhonka, dove, manco a dirlo, Azzoni si precipitò subito. E le sue aspettative non vennero deluse: la Vittoria di Calvatone era lì, nel bel mezzo della XXV sala dedicata all’arte romana. Azzoni chiese di parlare con un funzionario e venne accompagnato in un ufficio dove la responsabile del museo estrasse un corposo faldone in cirillico con la schedatura di tutte le opere esposte. Sotto la dicitura Vittoria alata di Calvatone stava scritto, così almeno spiegò la funzionaria, che si trattava di una delle tante copie eseguite tra gli anni 1898 e 1912. L’originale non sapeva dove fosse. Di certo anche lei si era recata a Berlino Est, rovistando da ogni parte, frugando negli archivi, ma dell’originale non aveva trovato traccia. E’ una copia anche quella oggi conservata nella sezione archeologica del museo civico Ala Ponzone di Cremona: una delle due copie in bronzo dorato eseguite dagli artigiani berlinesi direttamente su commissione di Adolf Hitler e donate da questi a Benito Mussolini in occasione della Mostra Augustea della romanità inaugurata a Roma il 23 settembre 1937. Si sa per certo che l’originale si trovava negli Staatliche Museen di Berlino, dai quali è scomparso nel corso della Seconda guerra mondiale, insieme ad altri pezzi di valore inestimabile che formavano la collezione nota come il “Tesoro di Priamo”. Dove sia finita la statua originale è ancora oggi un mistero, dal momento che le autorità sovietiche non si sono mai sbilanciate in proposito. Nell’ultima opera dedicata agli scavi di Calvatone “Bedriacum. Ricerche archeologiche a Calvatone” curata da Lynn Passi Pitcher si insinuava, però, nuovamente il dubbio che l’originale sia quello del Museo Puskin di Mosca. In realtà, prima che scomparisse nel nulla insieme al Tesoro di Priamo, si era stati sempre propensi a considerare come autentica l’opera dei Musei di Stato di Berlino Est. Alcuni cremonesi che si erano recati in visita nella ex capitale tedesca nel periodo antecedente l’ultima guerra, affermavano di averla vista regolarmente al proprio posto nello splendido museo. Il primo cremonese che riuscì a metter piede nel museo tedesco dopo il suo passaggio sotto l’influenza russa, all’indomani della conclusione del conflitto mondiale ed in pieno clima di guerra fredda, fu il professor Giuseppe Pontiroli, allora conservatore della sezione archeologica dell’Ala Ponzone che però non la trovò più fra le opere esposte, tra le quali figura, ad esempio, la ricostruzione dell’altare di Pergamo, antica capitale della Misia. Oggi sappiamo con certezza che la copia del museo Puskin rimanda nuovamente all’originale conservato allo Staatliche Museen di Berlino, come se nulla fosse nel frattempo accaduto. Evidentemente qualcuno non racconta tutta la verità.


giovedì 6 dicembre 2012

I prigionieri inglesi di Olmeneta

La piazza di Olmeneta

Un campo di concentramento per prigionieri inglesi alla cascina Longhirone. Ed una storia persa nel tempo riaffiorata grazie ad un libro dello storico bresciano Lodovico Galli, “Il Questore di Brescia della Repubblica sociale Italiana”, che raccoglie la documentazione inedita su Manlio Candrilli ed il suo ufficio negli anni compresi tra il 1943 ed il 1945.
Tra questa anche gli interrogatori relativi al legame intercorso tra Dina Aeri, giovane bresciana sfollata ad Olmeneta, ed il soldato inglese Michael, di cui non conosciamo altro se non il nome, storpiato in “Maico” nei verbali della Questura e, probabilmente, nelle dichiarazioni rese dalla donna accusata dunque di favoreggiamento. Proprio da lei veniamo a sapere, a quasi settant’anni di distanza dai fatti, che nel periodo compreso tra il maggio ed il settembre 1943 esisteva nella cascina un campo di prigionia di soldati inglesi che venivano impiegati come bergamini alle dipendenze di Pietro Ardigò. Fuggirono tutti dopo l’8 settembre e non se ne sarebbe saputo più nulla se uno di loro non fosse stato fermato alla stazione di porta Trento in dicembre con indosso la fotografia di una ragazza. Ne parla nel suo rapporto il sottufficiale dalla gendarmeria di campo Wenzler al Comando militare di Brescia.
“Il giorno 6.12.1943 fu fermato alla stazione di P. Trento dal Partito Fascista un prigioniero di guerra inglese. Gli fu trovata una fotografia di Aeri Dina, la quale si trovava nello stesso tempo alla stazione. La Aeri fu da me interrogata, essa disse che conosce quell’inglese del campo dei prigionieri che vi era ad Olmeneta dove abita la sua zia. Siccome i suoi genitori si trovavano presso quella zia, per pericolo aereo, essa si recava ivi ogni 14 giorni. In tale occasione essa vedeva l’inglese il quale la salutava. Dice però di non avere parlato con lui. Ancor meno essa può spiegarsi in quel modo lo stesso sia venuto in possesso della sua fotografia. Dice di non avergliela data lei. Essa suppone, siccome la sua zia regalava la biancheria al prigioniero ed essa aveva quella fotografia, che l’inglese se la sia presa presso la zia o che i bambini della zia l’abbiano data all’inglese. Dice di aver veduto l’ultima volta l’inglese prima dello sconvolgimento. Di non essere mai stata in relazione con lui”.
Nei documenti raccolti da Lodovico Galli c’è anche il verbale dell’interrogatorio di Dina, effettuato il 13 marzo 1944 nei locali della Questura. Dina era nata il 6 gennaio 1923, figlia di Guido e di Pasqua Sanvitti, dattilografa disoccupata, abitava in quel periodo in via S. Clemente 3.
“Nel maggio 1943 - racconta dunque Dina - mi sono portata ad Olmeneta (Cremona) e precisamente dallo zio Zacco Luigi, abitante nella cascina Longhirone per sfollamento. In detta località si trovava un campo di concentramento di circa una cinquantina di prigionieri di guerra, la maggior parte inglesi. Avevo occasione di vederli spessissimo in quanto detto campo si trovava vicino all’abitazione dei miei parenti e così ho fatto conoscenza con qualcuno di essi e tra questi un certo ‘Maico’, ma non saprei dare ulteriori e più precisi particolari sul loro vero nome. A molti di questi io accomodavo le calze mentre la zia Sanvitti Carolina in Zacco, pensava per la lavatura della biancheria. Sia il Maico che gli altri, pure accompagnati dalle guardie di scorta, venivano in casa nostra ora per una cosa o per l’altra e quindi era nata una certa confidenza, anche per il fatto che costoro si dimostravano con noi gentili, offrendoci quando arrivava loro qualche pacco, cioccolata od latri generi alimentari. L’8 settembre, quando avvenne il fuggi fuggi generale, tutti i prigionieri del campo si allontanarono dicendo che si sarebbero recati in Svizzera. Qualcuno di questi restarono ancora per qualche giorno in paese, per ritirare la merce, mentre la sera con le coperte andavano a dormire nei campi, Indi nei giorni seguenti essi un po’ per volta si dileguarono completamente senza lasciar più traccia. Il dicembre u.s. e precisamente la mattina del 6 di detto mese ho avuto occasione di (vedere ndr.) a porta Trento in Brescia il predetto straniero col quale però non ho parlato. Poco tempo dopo egli veniva fermato da due persone in borghese. A.D.R. Sia io che la zia non abbiamo mai fornito ad essi mangiare ed altro. Il detto ‘Maico’ prima di allontanarsi ha preso dalla casa della zia una mia fotografia adducendo che l’avrebbe tenuta per ricordo. Non ho altro da aggiungere”.  Raccontò tutta la verità Dina? Forse no, come ognuno può immaginare. Quella bugia pietosa, però, contribuì probabilmente a scagionarla dall’accusa di favoreggiamento. Di certo in quella stazione ferroviaria  in quel freddo dicembre finì anche la sua breve storia d’amore con il giovane soldato inglese. Anche il questore non volle approfondire la questione, e l’8 aprile 1944, aggiungendo altri particolari, mostra di credere alle parole di Dina, lasciando però intuire di aver capito tutto.
“Facendo seguito al mio foglio di pari numero in data 18 marzo u.s. si comunica che Aeri Dina rimase per sfollamento, presso la Sanvitti Carolina fu Antonio e fu Fatini Maria, nata a Borgo S. Giacomo (Brescia) l’11 novembre 1906, coniugata con Zacco Luigi fu Vitale, residente in Olmeneta, cascina Longhirone, oltre che nel mese di maggio 1943, anche per tutto il mese di agosto e parte di settembre dello stesso anno. Durante la sua permanenza in detta cascina, e specialmente nei primi del mese di settembre, l’Aeri strinse relazione di amicizia con alcuni prigionieri di guerra di quel campo di concentramento ed in particolar modo con il prigioniero ‘Maico’ il quale frequentava più sovente, l’abitazione della zia, sita poco distante dal campo di concentramento. Tale relazione venne allacciata perchè 4 prigionieri, compreso il ‘Maico’, lavoravano quali bergamini, alle dipendenze del sig. Ardigò Pietro nella stessa cascina Longhirone, dove, la sera ultimato il lavoro, si riunivano per passare qualche ora. La Sanvitti accoglieva in casa i quattro prigionieri suddetti in quanto conosciuti dal marito per ragioni di lavoro e nell’occasione provvedeva alla lavatura e rammendatura della loro biancheria. Non risulta che la famiglia dello Zacco abbia fornito del vitto e ricovero ai prigionieri, soltanto prima che detti prigionieri lavorassero nella stessa cascina, dava loro qualche pezzo di pane e un po’ di polenta. Dopo l’8 settembre dello scorso anno quando tutti i prigionieri del campo di concentramento si sbandarono per le campagne, i quattro che frequentarono l’abitazione della Sanvitti, rimasero in quelle adiacenze per alcuni giorni ancora e poi si allontanarono per tema di essere sorpresi e ripresi. Fu in quell’ultimo periodo di tempo che la Aeri s’incontrava più sovente con il prigioniero ‘Maico’ e sempre nelle campagne dove egli si era rifugiato. Verso il 15 settembre i quattro prigionieri si allontanarono e l’Aeri partì senza fare più ritorno presso la zia. Non è stato possibile accertare la vera relazione che intercorse tra l’Aeri e il prigioniero ‘Maico’ particolarmente negli ultimi giorni”.

martedì 4 dicembre 2012

Il violino è khazaro



Una docente di storia della musica alla Juilliard School di New York, Monica Huggett ha sostenuto recentemente che a trasformare la viola in violino non furono i liutai cremonesi bensì gli ebrei, fuggiti dalle persecuzioni in Spagna. Lo studio della Huggett, presentato nell’agosto 2009 a un simposio newyorkese davanti ai più grandi violinisti del mondo, è confortato da quello parallelo di Roger Prior, musicologo dell' università di Belfast, per il quale «esistono molte tracce dell'origine ebraica di questo strumento». L' indagine è complessa e passa per l'Inghilterra del ' 500, di Enrico VIII e d' una delle sue mogli, l' ebrea Emilia Bassano, che per ingentilire la vita di corte era solita invitare e ospitare musicisti italiani. Documenti dimostrerebbero che alcuni di questi suonatori, soprannominati «figli di Mosè», in contatto con le sinagoghe clandestine di Londra, venivano da Milano ed eramo di origine spagnola e portoghese, scappati con le loro viole nel 1492 e giunti nelle campagne lombarde a insegnare l' arte della liuteria. Non è un caso, sostengono i ricercatori, che proprio in quegli anni i reali inglesi s' appassionassero a «un nuovo, vivace strumento a corde». Uno studioso di storia ebraica, Franco Bontempi, è andato anche più in là e in una conferenza tenuta nell’ottobre 2008 a Chicago sull’origine del violino alla «The Twentieth Annual Conference of the Midwest Jewish Studies Association» ha sostenuto una serie di proposte sulla origine ebraica degli Amati.
In buona sostanza Bontempi si è convinto che sicuramente nella seconda metà del Cinquecento ci fossero numerose botteghe di liutai già affermate, tra cui quelle degli Amati e di Gasparo da Salò, ma che la costruzione del violino deve essere cercata più lontano, almeno un secolo prima, e ancora prima sarebbe iniziata l'evoluzione degli strumenti a corda.  E' necessario portare l’attenzione su quella infrastruttura che unisce tutta la pianura padana, che è la via Postumia. Essa collegava Aquileia con Genova ed era la strada dove passarono, nel primo millennio della nostra era,  le popolazioni che invasero l'Italia. Gli ultimi che attraversarono la pianura padana furono gli Ungari che, tra l'800 e il 900 d. C., entrarono  proprio lungo la via Postumia e occuparono le città tra Verona e Pavia. Liutprando da Cremona descrive  nella sua Antapodosis la loro avanzata. Insieme agli Ungari entrarono anche i Khazari. Si tratta di una popolazione, collocata inizialmente nella zona del Caspio, che si era convertita all'ebraismo e, nel 900 d. C. era stata scacciata dal proprio territorio dalla avanzata degli Slavi di Kiev. I Khazari erano stati accolti sia nell'impero bizantino che in Ungheria. Una volta entrati in Italia con gli Ungari essi si collocarono nella zona del basso lago di Garda. Ancora nel sedicesimo secolo gli statuti della Magnifica patria del lago di Garda, riferendosi a delle ordinanze di Federico II, quando si trovava a Cremona, parlano dei Khazari da loro definiti «Gazari». Sul lago essi erano chiamati Cuzeri. A Salò è conservata una lapide in ebraico di un loro rappresentante. Ora questi Khazari, a partire dal Mille, si stabilirono sul Garda e si specializzarono in particolari lavorazioni, soprattutto in quella del legno. La zona del lago era in questo periodo centro di movimenti ereticali, fra cui quello dei Catari. Non si deve sottovalutare il rapporto tra i Catari e i trovatori che usavano appunto degli strumenti a corda per cantare le loro composizioni. A questo gruppo deve essere attribuita l'invenzione del nome del violino. Nelle lingue neoromanze il nome ricorre nei primi decenni del Cinquecento ed è indicato come «vyolon».  Ora nel linguaggio dei Khazari noi abbiamo il termine «bulan» che deriva dal verbo «bul» e significa: «colui che ricerca». 
Noi sappiamo come il ricercare sia un genere musicale e fosse usato in modo particolare dai Trovatori. Io propongo un passaggio da bulan - vulan - violon/violin. E' interessante osservare che ancora del Cinquecento coloro che fabbricavano i violini erano chiamati violini loro stessi. Quindi inizialmente l'esecutore e lo strumento erano considerati una cosa sola. Il primo ricordo del violino si riferisce a uno strumento della metà del Quattrocento prodotto da un certo Kerlino. Ora la famiglia Cherlini era conosciuta sul lago di Garda e commerciava in salnitro. E apparteneva ad un'area in cui erano presenti numerose comunità ebraiche. Un altro liutaio della fine del Quattrocento era Jacopo della Corna. Ora questa determinazione riguarda generalmente i commercianti di armi e di altre merci, sempre sul lago. A partire dal Cinquecento, per le difficoltà sorte nelle Alpi a causa delle accuse riguardo a Simonino da Trento, gli ebrei lasciarono il territorio alpino e scesero nella pianura padana. Gli studi fatti sulla zona di Riva di Trento dimostrano come gli ebrei che erano nei territori del lago lasciarono quest'area e si spostarono nelle città: da Verona a Brescia, da Cremona a Mantova. Le antiche lavorazioni del legno furono mantenute. Alcuni, come la famiglia Bachi, trasferì le proprie conoscenze nel campo dell'arte tipografica. Questa famiglia andò prima a Verona, dove stampò alcuni libri, quindi a Praga dove realizzò una grande tipografia. Altri, come gli Amati, ripresero il lavoro delle botteghe che producevano strumenti musicali e si spostarono a Cremona. Per quanto riguarda la famiglia Amati  non si deve dimenticare che è un cognome presente in epoca storica sul lago di Garda dove esistono ancora delle famiglie che portano questo nome.
Il primo liutaio è Andrea (1505- 1577). E interessante notare come durante la visita di Carlo Borromeo, nel 1575, viene affermato: «Moses ha e insegna ad usare degli strumenti musicali...un cristiano insegna a usare la viola e sta nelle case degli ebrei». Inoltre il nome Amati deriva dal verbo «ahav», amare. La versione esatta sarebbe «Ahuvim», Amati appunto. La ricerca di Franco Bontempi, anche dall'analisi degli altri liutai del periodo, è consistita nel cogliere questo movimento di artigiani dal lago di Garda alle città padane. I Bertolotti, con Gasparo, si insediarono a Brescia, gli Amati a Cremona

sabato 1 dicembre 2012

Osiride in Cattedrale



Nell’antico ciclo di affreschi retrostante l’altare di San Michele nel transetto sinistro della Cattedrale di Cremona è rappresentata una delle più originali scene della psicostasi, cioè la pesatura delle anime. Nell’affresco, databile all’ultimo quarto del XIV secolo, si vede S. Michele arcangelo con una bilancia in mano a pesare le anime dei defunti, per capire se l'individuo è puro o peccatore nell'anima. Sullo sfondo il demonio, rappresentato come un mostro dal capo taurino, si porta via l'anima del malcapitato. Questo tema è molto più antico del periodo in cui è stato rappresentato, e rappresenta il momento più importante del trapasso del faraone nell'antico culto egizio. Si tratta di un’interpretazione cristiana del mito di Osiride, derivante dalla tradizione islamica (a sua volta derivante dalla mitologia egizia e persiana), ma che non ha nessun fondamento nelle scritture cristiane o nella tradizione cristiana precedente. Il Faraone prima di raggiungere l'ignoto aldilà, doveva affrontare una serie di prove il cui superamento veniva consigliato dal libro dei morti, una sorta di manuale su "come affrontare i pericoli nel viaggio verso l'eternità" che veniva "seppellito" insieme al Faraone. L'anima del defunto infine doveva affrontare la prova più ardua, il Giudizio Universale, abbastanza simile a quello cristiano. Osiride in trono, infatti, al pari di Gesù, doveva giudicarne l'anima che, se ritenuta pura e priva di peccato sarebbe stata accolta in cielo, al contrario sarebbe finita all'inferno. Veniva qui "pesata l'anima", il cuore del Faraone veniva posto sul piatto di una bilancia e sull'altro veniva appoggiata una piuma. Se il cuore risultava più leggero sarebbe stato accolto da Osiride nel regno dei cieli, altrimenti, già era pronta la bestia per divorarlo. Ritroviamo lo stesso tema anche nel Medioevo, senza ombra di dubbio derivato dal giudizio di Osiride nella lunetta sopra il portale di ingresso della Chiesa di San Biagio a Talignano in provincia di Parma risalente all’inizio del XII secolo. La lastra è opera di un artefice attivo nei primi decenni del XIII secolo, forse lo stesso delle Storie di Santa Margherita della vicina pieve di Fornivo. Il tema iconografico della pesatura delle anime, poco frequente in Italia è invece abbastanza comune nelle chiese francesi e in quelle sul cammino di Santiago, e testimonia l’importanza delle vie di pellegrinaggio per la circolazione della cultura nel medioevo. Una scena pressoché uguale si trova anche in un affresco databile alla prima metà del XV secolo nella di San Thomas Becket a Capriolo (Pr), una originaria cappella templare modificata nel XIII e XV secolo.  
La prima funzione di cui l’arcangelo Michele si faceva garante era quella del passaggio delle anime nell’aldilà, che si svolgeva nella mitologia antica sotto il doppio segno della levata delle Pleiadi, nelle stesse date dell’apparizione, della memoria, della consacrazione dell’arcangelo stesso (8 maggio e 29 settembre). Il cammino delle anime era concretizzato nel cielo dalla Via Lattea, che nei paesi celtici era chiamata “il castello di Lug” (divinità omologa del romano Mercurio). Fra i Germani le caratteristiche di Mercurio erano attribuite al dio guerriero Odino (Wotan per i Longobardi); la “cristianizzazione” della figura di Wotan con San Michele è stata sottolineata da diversi autori. Una teoria con solido fondamento vuole che la Chiesa cattolica, per stornare le popolazioni dal culto di Mercurio e di omologhe entità del Pantheon celtico o germanico, attribuisse all’arcangelo Michele funzioni che erano proprie di tali divinità; fra queste, il ruolo di psicopompo, accompagnatore di anime nell’aldilà dei beati, dopo la morte. Al culto di San Michele erano consacrate alture e cappelle nei cimiteri. L’arcangelo Michele è preposto al transito dell’anima, ma anche a garantire il rispetto del giudizio divino. La sua lotta col diavolo, per il possesso dell’anima del defunto, è raffigurata in un capitello della basilica di San Michele a Pavia. Anche l’immagine dell’arcangelo con la bilancia, è presente con frequenza nell’arte medievale in Francia, ad esempio quelle scolpite o in vetrate ad Amiens, Autun, Bourges, Chartres, Saintes, nella S.te Chapelle di Parigi. L’arcangelo Michele con la bilancia in mano appare in una piccola formella, all’esterno dell’abside maggiore della basilica pavese, scolpita in epoca piuttosto tarda. 

Trattandosi di un culto di età longobarda, si presenta spontanea la supposizione che il culto di san Michele in quanto psicopompo sia la cristianizzazione di un più antico culto germanico. Nella tradizione cristiana, è bene ricordarlo, san Michele è il maggiore degli arcangeli, colui che guida le coorti celesti contro Lucifero e gli angeli ribelli, è dunque dopo la Trinità divina la figura più possente del cristianesimo, e si presta perciò ad essere la “traduzione” cristiana di una figura niente affatto secondaria del pantheon germanico come Odino – Wotan. Le funzioni dell’arcangelo erano le stesse prima svolte da altri esseri soprannaturali. Si è verificato, ad esempio, che nella grotta di San Michele a Cagnano Varano sul Gargano, uno dei santuari di culto più antichi, ex mitreo, echeggerebbe la dottrina di Zoroastro (Zarathustra)  che assegna a Mithra il compito di uccidere il toro, figura leggendaria che attraversa i rituali e i miti di molti popoli, prestandosi all’opomanzia. Toro che è presente nella grotta di San Michele di Cagnano nella congregazione calcarea subito dopo la sacrestia ed ancora protagonista della leggenda dell’ “Apparitio” di San Michele a  Monte Sant’angelo e dell’ “Apparizione” registrata a Cagnano. Toro scolpito sull’arco di San Michele, una delle antiche porte del centro storico del paese.
Che la grotta abbia dato stanza al culto di Mitra, ufficializzato nella Roma imperiale nel terzo secolo, troverebbe conferma nella pianta dell’altare maggiore oggi intestata a San Michele, nella pila con acqua, nella campanella posta sull’arco, il cui suono richiamava i fedeli a ricomporsi, prima di entrare nel luogo sacro.   
L’Arcangelo presenta, in ogni caso,  molte affinità con le divinità dello zoroastrismo. Egli, ad esempio, come Ormazd (il Signore Saggio dei persiani), giudica le anime dopo la morte e, come gli Ameshaspenta, esseri anch’essi spirituali, lotta contro il male. Male che assume le sembianze di Angramanius, l’arimanne che si oppone a Dio (Ahura Mazda), ricorrendo alla bugia per contrastare il bene. Non è dunque un caso che il nostro San Michele, dopo aver duellato con il “diavolo” lo abbia infine vinto, schiacciandolo sotto i piedi, come vuole l’iconografia ufficiale, che mostra l’arcangelo dal volto delicato imbracciare arma e scudo, con il piede destro sul ventre di Satana e il sinistro sul petto dell’angelo ribelle. E il diavolo dalle orecchie appuntite, la fronte corrugata e la testa taurina.
Ma a Mithra, noto anche “sol invictus”,  come a Michael, è stata riconosciuta la funzione di psicopompo, giudicando le anime “a peso”. Compito attribuito dagli egiziani a Osiride, Anubis e Serapide, dai norvegesi a Odino. L’iconografia presenta perciò anche la versione dell’arcangelo con la bilancia.  San Michele è, inoltre, bello e luminoso come Apollo, interpellato nell’oracolo di Delfi, il dio dei greci e dei romani, patrono della profezia, della divinazione e della medicina. L’affinità Michele-Apollo emerge nell’iconografia e nelle leggende che li riguardano, e, se Apollo avrebbe ucciso in grotta un grande pitone o un drago che proteggeva il precedente santuario della Dea Madre, Michele nella nostra grotta avrebbe trafitto il diavolo tentatore, il toro (simbolo del paganesimo).
Michele ha gli attributi di Zeus tonante, del dio del cielo dei Lettoni, del dio Varuna dei Persiani, del dio della tempesta degli Ungari. Presenta analogie con Ermes (Mercurio), il dio messaggero protettore dei viaggiatori e dei mercanti.
Questo essere solare, che gli uomini continuano a vedere soprattutto quando sono prossimi alla morte, alla stregua di Zeus /Giove e di Hadad, il dio assiro-babilonese della tempesta, controlla le acque, il fulmine, la pioggia; come Poseidone, è responsabile delle tempeste e dei terremoti. Ecco perché i nonni lo implorano quando la terra trema. Come Pan, protegge i  pastori e la fertilità.
L’acqua, il serpente, il toro, la roccia, elementi ricorrenti nei rituali e negli antichi culti confluiti in epoca cristiana in quello micaelico.

martedì 20 novembre 2012

A Cremona il tesoro dei Catari


E’ la vigilia di Natale del 1243 quando Pierre-Roger de Mirepoix, assediato ormai da sette mesi nella rocca di Montsegur a 1207 metri d’altezza con 500 catari circondati da 10.000 uomini armati al comando di Luigi IX, in previsione della resa cerca di porre in salvo l’immenso tesoro ammassato negli anni precedenti. Si sta preparando un accordo che salvi la vita a quanti hanno combattuto coraggiosamente e abbiano rinnegato l’eresia. Per gli  altri il destino sarà quello di essere bruciati sul rogo. Matheus e Pierre Bonnet prendono tutti i cavalli validi che riescono a recuperare. Il tesoro, composto da pezzi d’oro e d’argento di grande valore, deve essere convogliato verso l’Italia, trasportato a cavallo fino a Port-la-Nouvelle dove un battello lo attende per condurlo a Genova. Vengono imbarcati anche i cavalli perchè il tesoro, lasciata Genova, deve in seguito essere portato verso Cremona. Il 1 gennaio 1244 il tesoro dei Catari veleggia verso l’Italia. La traversata dovrebbe durare otto giorni, ma una tempesta obbliga a sbarcare a Mentone. I cavalli ripartono verso Nord alla volta di Cuneo ed in quattro giorni giungono a Cremona.
L’ammodernamento della Cattedrale di Cremona, con la realizzazione del protiro e del rosone sulla facciata orientale ed il completamento del transetto settentrionale, e forse il rifacimento delle volte della navata centrale, ma anche l’ampliamento del palazzo comunale potrebbero essere stati realizzati con il tesoro scomparso dei catari. Sappiamo che a Cremona gli eretici godettero di vasta libertà di culto e movimento. Una forte comunità Catara vi si era insediata senza mai avere una “scuola” come a Concorezzo, Desenzano e Bagnolo San Vito. Non sappiamo neppure se la comunità di Cremona apparteneva all’ “Ordo Bulgarie” che praticava un dualismo mitigato (dipendente dalla chiesa di Concorezzo), all’ “Ordo Drugunthiae”, che praticava un dualismo assoluto (dipendente dalla chiesa di Desenzano) oppure all’ “Ordo Sclaveniae” che praticava un dualismo mitigato (dipendente dalla chiesa di Bagnolo San Vito). A Desenzano esisteva addirittura una Chiesa con oltre cinquecento “perfecti”, tra le principali in Italia e in Europa e vi predicava il vescovo Giovanni da Lugio, autore del “Liber de duobus principiis”, massimo teologo del catarismo, l'unico in grado di tener testa dottrinalmente ai “colleghi” cattolici. Nella vicina Sirmione la situazione era differente. La penisola lacustre era diventata l'estremo rifugio per tutti i catari perseguitati, senza distinzioni liturgiche e dottrinali.
Lì aveva trovato sede la gerarchia ecclesiastica albigese in esilio. Lì continuava le sue predicazioni il vescovo primate di Tolosa, Bernard Marty, fuggito da Cremona, dove aveva trovato temporaneamente rifugio dopo essere scampato all’eccidio di Montsegur.
Il 13 giugno 1251, infatti, il papa Innocenzo IV affidò a Pietro Rosini da Verona il compito di contrastare a Cremona l’influenza del vescovo cataro di Tolosa, Bernard Marty, che vi si era rifugiato per sfuggire all’invasione della sua terra da parte del cattolico re di Francia, dopo che, nel periodo di vacanza del pontificato, si erano verificati numerosi attacchi di eretici ai capisaldi papali, ivi compresi l’incendio della sede dell’Inquisizione e l’assassinio, il 28 maggio del 1242, di dieci suoi membri ad Avignone. Cremona dunque diede rifugio ai Catari in fuga dalla Provenza sotto assedio delle truppe francesi della “Crociata contro gli Albigesi” Nell’ottobre 1243, durante l’assedio a Montsegur, arrivò da Cremona Raymond de Niort, perfetto di Balesta, con un messaggio del vescovo cataro di Cremona che invitava i fratelli a rifugiarvisi e dove avrebbero ricevuto protezione.
Forti di questa informazione, il 23 dicembre verso mezzanotte, due fratelli catari, Matheus e Pierre Bonnet lasciarono di nascosto il castello assediato con diversi cavalli e portarono con loro il tesoro dei catari. Da Montsegur si portarono a Port-la Nouvelle dove, il primo gennaio 1244 si imbarcarono verso l’Italia. Arrivati al porto di Mentone, il tesoro abbandona il mare per proseguire per terra. I due fratelli Bonnet vengono aiutati ad attraversare le Alpi da catari residenti nel cuneese e proseguono quindi attraverso un percorso poco battuto fino a Cremona. Intanto prosegue l’assedio dei crociati a Montsegur. Il 12 marzo 1244 gli assediati propongono ai crociati una tregua di quindici giorni, prima della resa. E’ durante questa tregua che quattro catari riescono ad abbandonare ii castello; ci sono giunti pure i nomi di tre di essi: Amiel Aicart, Hugon e Poitevin, mentre del quarto non si sa nulla. Amiel Aicart e Hugon, molto probabilmente, prendono la via della Spagna, mentre Poitevin e l’altro personaggio si recano in Lombardia. Poitevin verrà segnalato appunto in Lombardia nel 1252 e nel 1255.
Il 16 marzo 1244, nella piana davanti al castello di Montsegur vengono bruciati 220 catari tra cui anche Raymond de Niort che aveva portato la lettera del vescovo cataro di Cremona nell’ottobre 1243. Chi era dunque il quarto uomo fuggito da Montsegur? E se non fosse vera la notizia che il 16 di marzo Bertrand Marty, alla testa di duecento catari, si consegnò agli assalitori? Le cronache ci descrivono Bertrand Marty come molto vecchio a capo dei suoi seguaci ai quali aveva appena imposto il “consolamentum”.  Le prime notizie di questo personaggio ci vengono da Tolosa, dove sappiamo che nel 1233 diventa diacono cataro e nel 1239 “figlio maggiore” (coadiutore) di Guihalbert de Castres, vescovo di Tolosa. Da queste date, non ci sembra che Marty sia stato molto vecchio, per cui è verosimile che nel 1251 fosse presente a Cremona e che vi predicasse 1’eresia catara. La notizia quindi del soggiorno del vescovo Bernard Marty nel 1251 nella nostra città ci svela un altro mistero. In tutte le cronache e leggende sulla fine di Montsegur, viene nominato come strenue difensore appunto Bernard Marty che sarebbe quindi stato bruciato, dopo la resa del castello, insieme a duecentoventi suoi confratelli nel 1244 e gli autori di tutte queste cronache si chiedono che fine avesse fatto il famoso “tesoro dei Catari”. Ma se Bernard Marty lo troviamo a Cremona appunto nel 1251, vuol dire che si era salvato dall’orribile fine con una fuga e che molto probabilmente si era portato al seguito il tesoro della comunità.
Infine, a Cremona il protettore dei catari, Uberto Pallavicino, viene spodestato nel 1268, i Catari vengono quindi imprigionati ed i loro beni confiscati. La bolla papale stabilisce che i beni confiscati debbano essere suddivisi per un terzo ai frati di S.Domenico e S.Francesco, un terzo alla chiesa per la lotta agli eretici ed un terzo al comune dove risiedono appunto gli eretici. Dal 1268 per circa venti anni, a Cremona assistiamo alla costruzione dei conventi domenicani e francescani, in duomo viene rifatta la facclata con l’inserimento del rosone, l’innalzamento del protiro e, forse, la copertura della navata maggiore con le volte; il comune raddoppia il palazzo comunale. Ecco dove forse è finito il famoso tesoro dei catari. Bernard Marty trovò probabilmente rifugio a Sirmione dove esisteva una forte comunità catara definitivamente debellata quando il signore di Verona, Mastino della Scala, desideroso di una riconciliazione col Papa per poter rafforzare il proprio potere, decise di accontentarlo debellando il covo di eretici sul lago. Insieme al vescovo ex inquisitore, Fra Temidio Spongati, fu scatenata una piccola crociata contro Sirmione, che non potendo tener testa alla potenza degli Scaligeri, capitolò. Era il novembre del 1276. Furono arrestati ben 166 tra vescovi e perfetti. Altri furono individuati più tardi. Tradotti con la forza a Verona, cominciò per essi un processo iniquo, che si sarebbe concluso nella maniera più tragica. Il 13 febbraio del 1278, nell'Arena della città, gli ultimi catari e le speranze del loro movimento furono arrostiti vivi in un immane rogo, a centinaia.

domenica 18 novembre 2012

La battaglia fluviale del 1431 nel parcheggio della Coop


Il parcheggio della Coop in via del Sale un campo di battaglia. Non per le auto, beninteso, ma per le galee veneziani di oltre cinque secoli fa. La scoperta sensazionale è stata fatta da Giulio Grimozzi, già presidente del Laboratorio del Cotto, ed è frutto di una scrupolosa ricerca che, alle fonti storiche, ha affiancato i rilievi tecnici delle triangolazioni geometriche.
La battaglia ci cui parliamo è quella combattuta sul Po il 21 e 22 giugno 1431 quando 35 galee della Serenissima, giunte da Venezia per dar man forte al conte di Carmagnola che assediava Cremona, furono sgominate dalle navi dei Visconti nella più grande battaglia fluviale mai combattuta sul territorio nazionale. Spettatori i cremonesi che, meravigliati, osservavano la scena dall’alto delle torri e dei campanili. Ed è proprio quest’ultimo particolare che ha convinto Grimozzi ad approfondire la questione: nelle cronache dell’avvenimento si dice che i navigli veneziani avevano gettato l’ancora ad un “tiro di archibugio” dalle mura, quindi a circa 350 metri di distanza, tanti quanti erano consentiti dalla gittata dei proiettili utilizzati da questi prototipi dei nostri fucili.
Il problema era capire in quale punto esatto del Po si svolse lo scontro. Dai dati raccolti, osserva Grimozzi, si può desumere con buona certezza la posizione nello specchio d’acqua costituito dall’ansa che il fiume formava di fronte a Porta Po Vecchia, collocata all’inizio di via del Sale all’incrocio con via Cadore. Calcolata la gittata dei proiettili degli archibugi in 350 metri si arriva nell’area del parcheggio della Coop. La posizione è stata confermata valutando le linee di osservazione del popolo che, una volta salito sui campanili di Sant’Omobono, San Marcellino e San Pietro al Po, osservava lo scontro: le linee di osservazione di intersecano proprio in quel punto.
Oggi ci risulta difficile immaginare una battaglia di queste proporzioni. Non riusciamo a concepire come una flotta di una trentina di navi abbia potuto risalire il Po da Venezia fino alle mura di Cremona, ed i libri di storia, che narrano le gesta marinare della Repubblica veneta, non ci soccorrono in questo sforzo di immaginazione. La stessa conoscenza dei luoghi attuali non ci aiuta: dove dovrebbe esserci uno specchio d’acqua oggi c’è invece il parcheggio di un centro commerciale. Come è possibile?
Occorre ricordare che l’alveo del Po nel XV secolo non era irreggimentato e le sue sponde erano distanti anche quindici chilometri l’una dall’altra, in pratica dalle mura di Cremona a Monticelli d’Ongina e la sponda cremonese era quasi a ridosso della cinta muraria da ovest a sud-est al punto che le acque la lambivano per un lungo tratto da poche decine di metri dall’attuale via Milano fino a San Sigismondo. Mentre paludi e lanche separavano il corso vivo della corrente dalle sponde piacentine, le acque del Po lambivano la città oltre l’insula fluvialis, collocata  nei pressi dell’attuale piazza Cadorna. Data la larghezza dell’alveo e la portata del fiume che non doveva essere molto differente dall’attuale, la corrente del Po doveva essere prevalentemente di tipo lacustre e poteva consentire facilmente la navigazione a remi e persino a vela anche contro corrente, con fondali mediamente poco profondi ma tali da consentire le manovre delle galee anche in assetto da battaglia.
Quella mattina del 21 giugno 1431, dunque, le galee veneziane erano giunte sotto le mura di Cremona con una certa facilità, pensando di farne facile preda, stante la loro indiscussa capacità marinara.
Le galee veneziane erano imbarcazioni equipaggiate con circa 25-30 rematori di dimensioni ordinariamente comprese entro i 41 metri di lunghezza, per 6,50 di larghezza, 2,80 di  altezza con un metro di pescaggio e un dislocamento di circa 250 tonnellate, anche se si ha notizia di galee lunghe anche cinquanta metri. A prua vi era un castelletto chiamato “rambata”. a poppa il padiglione in cui era ricavato l’alloggio per gli ufficiali.
Galea veneziana del XV secolo
I rematori erano quasi tutti condannati (i galeotti) e l’equipaggio armato era prevalentemente costituito da marinai greci, turchi e albanesi che venivano pagati sulla base del numero di teste che presentavano alla fine di ogni combattimento per il conteggio e la riscossione del compenso.
Tuttavia persero la battaglia. I loro piani vennero vanificati probabilmente per colpa di un paio di errori di valutazione: il primo fu sicuramente la sottovalutazione della forza dell’avversario. Infatti Cremona disponeva di una marineria agguerrita e, soprattutto, di una secolare tradizione di navigazione che risaliva ai tempi delle Crociate, quando i cremonesi avevano inviato oltremare galee, dette Busa, con cento cavalieri ognuna. In pratica, calcolando che ogni cavaliere si tirava dietro scudieri, armigeri, stallieri, cavalli armi e vettovaglie, oltre ai 1500 artigiani citati da Francesco Robolotti, la flotta cremonese doveva essere numericamente di tutto rispetto. Un altro motivo della sconfitta va ricercato nell’atteggiamento del duca di Carmagnola.
Questi avrebbe dovuto attaccare la città da terra, cosicché Cremona si sarebbe trovata tra due fuochi, impegnata su due diversi fronti. Ma questo non avvenne, senza che il motivo sia stato chiarito.
Di fatto il Carmagnola, fosse per ritardo o tradimento, finì i suoi giorni sul patibolo allestito in piazza san Marco dove fu decapitato con l’accusa di alto tradimento. Cremona, peraltro, poteva godere nello scontro di forze fresche, contrariamente ai veneziani giunti sotto alle sue mura dopo giorni di viaggio.
Le navi, dunque, si schierano in ordine di battaglia. Le donne cremonesi, temendo il peggio, si rifugiano nelle chiese e dove capita, ma soprattutto si prostrano in preghiera davanti alle reliquie dei santi protettori, a Sant’Eligio, dove riposa Sant’Omobono, e San Tommaso, che conserva le spoglie dei martiri Marcellino e Pietro. Mentre la città trema, temendo il saccheggio, la flotta veneziana si dispone su tre schiere: la prima, di dodici triremi agli ordini di Niccolò Trevisan, è quella più efficiente per armamento e valore di uomini. Su ogni galea prendono posto esperti capitani appartenenti alle famiglie più celebri del patriziato veneto: i Pesaro, i Soranzo, i Delfino e i Da Ponte. Robustissime catene legano tra di loro le navi per costituire un sicuro argine in previsione dell’attacco dei viscontei.
Altre quindici navi vengono disposte come copertura dei lati del cuneo centrale, mentre altre navi cariche di rifornimenti sono poste dietro ed attendono gli sviluppi dello scontro. Lo stesso criterio di disposizione tattica viene adottato dai viscontei: venti navi disposte a cuneo e altre venti più leggere ed adatte ad interventi di emergenza sulle ali. Il Piccinino, dopo aver dato coraggio ai suoi, dà il segnale dell’attacco. Da quel momento si combatte per quattro ore nell’afa del pomeriggio, tra lo strepito delle armi e il ribollìo dei flutti. In un primo momento i veneziani sembrano avere la meglio, ma all’imbrunire il combattimento viene sospeso quando cinque galee viscontee sono state incendiate e distrutte e tre veneziane catturate.
Tutto viene rimandato al giorno successivo, ma nella notte il Piccinino corre ai ripari e con il favore delle tenebre fa sbarcare i morti ed i feriti e li fa rimpiazzare con giovani cremonesi pronti a difendere la loro città costi quel che costi, mentre incombe il pericolo che intervengano le truppe di terra del Carmagnola.
Il conte di Carmagnola
Ma Niccolò Trevisan che guida la flotta veneta cambia improvvisamente strategia, disponendo le sue galee su due sole schiere. Alle prime luci dell’alba del 22 giugno, dopo una notte di veglia trascorsa in preghiera nelle chiese illuminate da ceri e torce e nel medicare i feriti nello scontro precedente, riprende la battaglia ancora più furente. Nello scontro vengono lanciati i proiettili più disparati: pietre, saette, dardi, torce infiammate, missili con pece e zolfo infuocati e anche vasetti colmi di calce viva, ma vengono utilizzati anche balestre, schioppetti e bombarde.
Mentre regna la confusione fulmineamente entrano in azione le due più potenti navi viscontee, guidate da Pasino degli Eustachi e da Pietrobono da Parma: due galee robustissime, lunghe quaranta metri e larghe più di sei, sospinte dalle braccia di 126 rematori disposti in gruppi di tre su ciascuno dei 46 remi e gli ultimi 21 per lato: come lanciate da una catapulta si fiondano contro il cuneo formato dalla flotta avversaria, schiantando tutto quanto incontrano nella loro corsa, remi, chiglie, catene. I mille soldati viscontei, ancora freschi, hanno ragione dei tremila combattenti veneziani stremati dalle lunghe lotte corpo a corpo, colpendoli con i terribili verettoni, delle lance corte e potenti. Le galee venete, sospinte a valle dalla corrente ormai abbandonate a se stesse prive di rematori e di remi, fracassati dalle prue nemiche, vengono ancora ripetutamente colpite ed affondate. Il resto della flotta viscontea, guidata da Giovanni Grimaldi, si infila tra la riva e l’ala sinistra della flotta veneta e le dà il colpo di grazia. Dopo dodici ore di combattimenti sul Po galleggiano i resti dell’armata veneziana.
Dopo aver atteso inutilmente l’arrivo del Carmagnola al capitano veneto non resta che dare il segnale della ritirata, dopo aver difeso strenuamente i resti della sua flotta,  solo quattro galee ormai impantanate nei bassi fondali. Lui stesso si dà alla fuga su una piccola barca travestito per non farsi riconoscere. Il resto della flotta, inseguito dai vincitori, trova rifugio a Pontelagoscuro. Sul campo rimangono i resti di 31 galee veneziane, ottomila tra morti, dispersi e prigionieri, catturate tutte le navi da carico ricche di rifornimenti e vettovaglie, e condotti in catene a Pavia i marinai libanesi, greci e dalmati.
E per tre giorni i cremonesi fecero festa per lo scampato pericolo. Rinunciando a dividersi il prezioso bottino di guerra, con una intera nave catturata stipata di vesti preziose, damaschi e spezie orientali, accesero luci intense sul Torrazzo, sul palazzo comunale e sulle torrette della Cattedrale.
E la gioia veniva anche a cancellare il ricordo di due precedenti sconfitte subite dai viscontei sulle stesse acque del Po nel 1426 e 1427. Ma era soprattutto felice il comandante pavese Pasino degli Eustachi che in quelle occasioni aveva dovuto inchinarsi alla maggiore esperienza dell’ammiraglio veneziano Francesco Bembo che aveva risalito il Po fino alla confluenza del Ticino, minacciando la stessa Pavia.

sabato 17 novembre 2012

Un Priore di Sion in Cattedrale


La Cappella del Corpo di Cristo nel Duomo di Cremona ripercorrerebbe in realtà la vicenda di Maria Maddalena fino a prenderne la stessa dedicazione: la figura della donna costituisce il fil rouge che lega opere anche temporalmente distanti tra di loro come le due tele di Giulio Campi raffiguranti "Maddalena ai piedi di Gesù" del 1569 e "L'Ultima Cena" dell'anno precedente e "l'Apparizione di Cristo alla Maddalena" di Giovanni Angelo Borroni del 1750. Ma vi è di più: lo stesso Giovanni dell'Ultima Cena, con le sue sembianze femminili, addormentato sul braccio di Cristo, sarebbe in realtà ancora lei, la Maddalena, la vera "coppa" del sangue di Cristo, in quanto sposa e madre dei suoi figli. Una storia vecchia come il mondo, più volte prefigurata o lasciata intuire, che la Chiesa ha sempre risolutamente rifiutato. Nel Duomo di Cremona, alla discussa figura della Maddalena, sarebbe invece dedicato addirittura un intero ciclo pittorico ed una cappella delle più sontuose mai realizzate, quella del Santissimo Sacramento.
La rappresentazione dell'Ultima Cena sembra addirittura ancora più forte dello stesso famoso affresco di Leonardo da Vinci a Milano. In primo luogo abbiamo un quadro in cui Giovanni indubbiamente è una donna, basti osservare queste immagini per togliere ogni forma di dubbio: il volto è assolutamente femminile, i lineamenti sono dolci e inquadrano una donna, anche particolarmente bella. E fin qui non ci sono dubbi. Ma qui siamo di fronte a qualcosa di più. L'Ultima Cena si trova all'interno della cappella del Santissimo Sacramento in cui vengono in realtà  rappresentati tutti i momenti salienti della vita di Maria Maddalena, compresa l'ultima cena. L'altro fatto incredibile è che, come fossero vignette di un fumetto, la donna è sempre la stessa. Le scene della cappella sono: Il Noli me tangere, l'adultera, il lavaggio dei piedi, l'ultima cena. In tutti questi quattro quadri la protagonista è una sola: Maria Maddalena. E' lei nel lavaggio dei piedi, è la stessa nell'adultera, la stessa nel "Noli me tangere", è la stessa nell'Ultima Cena. Non solo gli stessi lineamenti, ma quasi anche gli stessi abiti. Che dire di fronte ad una rappresentazione simile davanti agli occhi di tutti?. Il San Giovanni rappresentato vicino a Cristo nel corso dell'Ultima Cena in realtà sarebbe la Maddalena.
"Noli me tangere" di Angelo Borroni
E il Santo Graal non sarebbe, come la tradizione ha sempre creduto, una coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo, ma una persona, Maria Maddalena, la vera "coppa" che ha tenuto in sé il sang réal, in francese antico il "sangue reale", da cui "Santo Graal", cioè i figli che Gesù Cristo le aveva dato. La tomba perduta della Maddalena è dunque il vero Santo Graal. Secondo questa teoria, fatta propria da Dan Brown nei due romanzi “ll codice da Vinci“ e “Angeli e demoni”, Gesù Cristo aveva affidato una Chiesa che avrebbe dovuto proclamare la priorità del principio femminile non a san Pietro ma a sua moglie, Maria Maddalena, e che non aveva mai preteso di essere Dio. Sarebbe stato l'imperatore Costantino a reinventare un nuovo cristianesimo sopprimendo l'elemento femminile, proclamando che Gesù Cristo era Dio, e facendo ratificare queste sue idee dal Concilio di Nicea  del 325. Il progetto presuppone che sia soppressa la verità su Gesù Cristo e sul suo matrimonio, e che la sua discendenza sia soppressa fisicamente. Il primo scopo è conseguito scegliendo quattro vangeli "innocui" fra le decine che esistevano, e proclamando "eretici" gli altri vangeli "gnostici", alcuni dei quali avrebbero messo sulle tracce del matrimonio fra Gesù e la Maddalena. Al secondo, per disgrazia di Costantino e della Chiesa cattolica, i discendenti fisici di Gesù si sottraggono e secoli dopo riescono perfino a impadronirsi del trono di Francia con il nome di merovingi. La Chiesa riesce a fare assassinare un buon numero di merovingi dai carolingi, che li sostituiscono, ma nasce un'organizzazione misteriosa, il Priorato di Sion, per proteggere la discendenza di Gesù e il suo segreto. Al Priorato sono collegati i templari,  e più tardi anche la massoneria. Alcuni fra i maggiori letterati e artisti della storia sono stati Gran Maestri del Priorato di Sion, e alcuni, fra cui Leonardo da Vinci, hanno lasciato indizi del segreto nelle loro opere. La Chiesa cattolica, nel frattempo, avrebbe completato la liquidazione del primato del principio femminile con la lotta alle streghe, in cui periscono cinque milioni di donne. Ma tutto è vano: il Priorato di Sion sopravvive, così come i discendenti di Gesù in famiglie che portano i cognomi Plantard e Saint Clair.
Ma torniamo per un momento al nostro San Giovanni. Anche il suo aspetto "virginale" ha una origine molto precisa. Uno dei testi fondamentali per capire i soggetti dell'arte sacra dal XIII al XVI secolo è la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Si tratta di un voluminoso repertorio scritto intorno al 1280 che comprende vite di santi e scene tratte dai vangeli, sia "canonici" che "apocrifi" . Questi ultimi non erano considerati tutti eretici o proibiti come molti credono. Molti apocrifi erano testi abbastanza diffusi e ne circolavano anche versioni in lingua volgare. Lo stesso Jacopo da Varazze, vescovo di Genova, ne utilizzò diversi come fonti dei suoi scritti, dichiarandolo apertamente. Nel capitolo dedicato a Giovanni, nella Legenda Aurea leggiamo che "Dio lo volle vergine, e perciò il suo nome significa che in lui fu la grazia: in lui infatti ci fu la grazia della castità del suo stato virginale, ed è per questo che il Signore lo chiamò durante le nozze, mentre lui voleva sposarsi". Ecco dunque che l'aspetto di Giovanni visto come un "giovane vergine" al contrario di altri apostoli raffigurati come uomini maturi, spesso barbuti, si spiega senza ricorrere a fantomatiche Maddalene nascoste. Ma lo stesso Jacopo da Varazze, quasi a smentire quanto detto prima, aggiunge poi: "Alcuni sostengono che Maria Maddalena fosse la sposa di Giovanni Evangelista, che stava per prenderla in moglie quando Gesù chiamandolo lo distolse dalle nozze. Per questo, cioè per il fatto che le aveva portato via lo sposo, offesa se ne andò e si dette ad ogni tipo di dissolutezza", ma aggiunge che "tutte queste cose sembrano essere false e prive di fondamento". Insomma Dan Brown non ha scoperto nulla di nuovo. A conferma dell'atteggiamento ambiguo, cosciente o inconsapevole che sia, tenuto nel rappresentare la figura di San Giovanni esiste anche un disegno dello stesso Leonardo da Vinci conservato oggi alla Biblioteca Rale di Torino presentato alla mostra "Il Genio e le passioni" curata nel 2001 da Pietro Marani. Si tratta chiaramente del volto di una fanciulla che, secondo lo stesso curatore della mostra, sarebbe poi stato adottato per alcuni personaggi del Cenacolo, compreso lo stesso Giovanni "che doveva essere contraddistinto da un'analoga dolcezza e intensità, se la pittura non fosse subito deperita". Giulio Campi aveva dunque davanti a sè un tradizione iconografica precisa cui far riferimento. Semmai non si è sforzato con la fantasia nel replicare inalterata la figura, quasi fosse un fumetto, facendole vestire i panni di Maddalena nel riquadro sovrastante.
Ma il quadro dell’Ultima Cena presenta un altro particolare che lo rende unico e misterioso. L’autore, Giulio Campi, avrebbe infatti voluto apporvi una sorta di sigillo raffigurando se stesso in uno dei personaggi che assistono al banchetto. E’ l’enigmatico personaggio che si affaccia all’estrema destra. L’unico a voltarsi verso l’osservatore. Il suo viso, tra i discepoli che si affollano intorno a Cristo, è l’unico fortemente caratterizzato, incorniciato da una rada barba del tutto simile a quella presente sul profilo di una medaglia dell’Accademia Carrara di Bergamo dedicata appunto al nostro illustre concittadino. Ed è anche l’unico, in una scena di genere, a vestire un abito di foggia moderna. Quando dipinse la tela verso il 1569 Giulio doveva avere intorno ai 62/63 anni, era ormai alla fine della sua carriera e si trovava a rivaleggiare nello stesso lavoro con il più giovane Bernardino, allora nella sua piena maturità artistica. Perché mai avrebbe voluto effigiarsi in un quadro del tutto originale come quello dell’Ultima Cena? Che anche lui come Leonardo abbia voluto lasciare un segno della sua appartenenza al sodalizio misterioso del Priorato di Sion, mostrando quindi di condividere la tesi della Maddalena sposa di Cristo?

lunedì 12 novembre 2012

Inventata a Cremona la prima lampadina Osram

La FR 900 (foto G. Lazzari)

Tutti conosciamo il marchio Osram, nato ufficialmente in Germania nel 1906 ad opera del barone austriaco Auer von Welsbach, divenuto celebre per aver brevettato la prima lampadina moderna con filamento in tungsteno. Su quella lampadina Auer, che fino ad allora era noto per essere fabbricatore di cucine e scaldabagni a gas, reticelle, lampade a gas, fornelli, ferri da stiro a stufe sempre a gas, costruì la sua fortuna. Ma pochi sanno che in realtà la prima lampadina moderna a filamento metallico è stata realizzata, prodotta e utilizzata a Cremona ben prima che Auer ne venisse a conoscenza.
Si chiamava proprio Osram, acronimo che non era il risultato dell’accostamento dei due termini osmio e wolframio, come poi venne elaborato a posteriori dopo il 1907, ma semplicemente la lettura al contrario, come avrebbe fatto Leonardo da Vinci,  del più comune termine “Marso”, che i cremonesi di allora conoscevano bene. Era infatti la palude formata dal Morbasco ai piedi di via Massarotti, dove in quei lontani anni, in un’oscura vetreria, si realizzava nel 1900 la prima lampadina della storia moderna. Un gruppo di geniali imprenditori cremonesi, il vetrario F.R., di cui purtroppo ricordiamo solo le iniziali, il farmacista Francesco Cavana, l’industriale Fortunato Arvedi, ne sono stati gli inventori. La vicenda, un vero e proprio giallo dai contorni dello spionaggio industriale, sarebbe stata relegata al silenzio, come in effetti è avvenuto per oltre un secolo, se un cocciuto cremonese, Gabriele Lazzari, non si fosse ostinato nel riportarla alla luce, ricostruendola nei minimi particolari in oltre quattro anni di ricerche. Ha raccolto un faldone di quattrocento pagine, con documenti, fotografie, riproduzioni, partendo da quella lampadina, rintracciata fortunosamente in una vecchia cassetta di legno, adagiata sopra una pila di giornali e vecchie riviste in una soffitta di via Carlo Speranza.
La lampadina è del tipo a incandescenza a filamento metallico, con bulbo in vetro  e impresso in trasparenza a smeriglio il marchio Osram. Sopra il contrassegno spicca lo stemma del Comune di Cremona con il motto della città “Fortitudo mea est in bracchio”. Scritte a mano libera con una penna sono le iniziali del costruttore, F.R., e la data di fabbricazione, il 12 novembre 1900. All’interno del bulbo, sul fondo circolare del vetro, sono scritti a mano con una penna dotata di pennino altri numeri. La virola è del tipo “Helios”, tedesco, ma mai adottato dalla Osram ufficiale fin dai suoi inizi. Sono elementi che hanno indotto Lazzari a ritenere la nostra lampadina incompatibile con il marchio “Osram” nella sua accezione classica. E dunque... Auer che quel marchio aveva registrato solo il 17 aprile 1906 a Berlino non poteva esserne il vero autore ma solo chi, anni dopo la sua invenzione, l’aveva registrata a suo nome. Non solo: il termine Osram non poteva essere l’acronimo di osmio e welframio, che nel 1900 ancora non erano nè conosciuti nè sperimentati con assiduità. La nostra lampadina, inoltre, era dotata di una soluzione tecnica come l’arcolaio che aveva permesso di soppiantare il filamento a carbone con quello metallico, introducendo il tungsteno e facendo fare alla lampadina quel salto di qualità che la farà resistere al tempo. Allora c’era solo una persona in grado di fare questo: Fortunato Arvedi.
Gabriele Lazzari nella sua ricerca si è imbattuto in un’anziana signora che ricorda come “lampadine di quel tipo venivano date dal Comune di Cremona in dotazione alle antiche latterie comunali dall’inizio del ‘900, ed alle farmacie comunali poi”. Una di queste lampadine, fabbricata qualche anno dopo, è conservata al museo civico di storia naturale.
Fin dal 1725 esisteva nella zona compresa tra Porta Mosa e Largo Pagliari un laboratorio di vetreria, fondato dal veneziano Gaetano Dolfini, che il Grandi ricorda ancora esistente verso la metà dell’Ottocento. Da piccolo opificio l’attività venne trasformata in azienda dalla famiglia Mina, trasferendo la sede in via Aporti. Nel 1881 fu costituita una Snc denominata Martini-Rizzi & C. che nel 1887 assunse il nome di “Vetraria Cremonese” ed aveva come soci Pietro Rizzi, Fanny Mina, Teresina Cremonesi, Luciano Ferragni, Ernesto Cremonesi Ulisse Dongiovanni e Amtonio Gamba. L’anno successivo l’azienda cessò l’attività con il subentro di Carlo De Stefani che nel 1900, a sua volta, cedette l’impresa ad imprenditori milanesi che, il 4 novembre 1900 costituirono la ditta “Società Vetraria Cremonese”, con sede in via Morbasco, nei pressi di porta Po. Ne facevano parte Giuseppe Bellavita, Guido e Arturo Stabilini, Enrico Cadari che, il 25 aprile 1901, accettarono l’ingresso di tre nuovi soci milanesi: Achille Magnani, Giovannina Lucioni e Luigi Clerici. Fin dal 1889, peraltro, Carlo De Stefani aveva già specializzato l’azienda nel settore della illuminazione utilizzando il logo “Comune di Cremona”, presente sulle lampadine a filamento di carbone, di cui sono rintracciati esemplari fin dal 1886. La “Società Vetraria Cremonese”, come abbiamo visto si era trasferita nella zona del Morbasco. Si è potuto rilevare che la fabbrica sorgeva in via Massarotti, sulla riva del colatore, a circa 50 metri dall’incrocio con via Trebbia.
Una parte fu demolita per costruirvi la sede dell’Ufficio di collocamento mentre un’altra parte è stata per anni sede del marmista Galli. Demolita del tutto nel 2005, ospita oggi un piccolo residence. Il Morbasco, nel tratto compreso tra via Massarotti e piazza Cadorna formava due anse soggette ad allagamenti, dove i cremonesi erano soliti recarsi a pescare.
Nella lanca di porta Po sfociava anche la Cremonella. Con termine popolare la località veniva chiamata “marsòon”, decisamente appropriato in quanto vi scaricava le acque anche il Macello Pubblico. L’altra lanca, più piccola, situata qualche centinaio di metri a monte, veniva chiamata “marso”, sempre in considerazione del cattivo odore che emanava. I vecchi cremonesi chiamavano scherzosamente “montagne del Lugo” le montagnole di terra elevate artificialmente per arginare le due lanche. Con il termine “Marso” veniva identificata l’intera sponda sinistra sul Morbasco, compresa la recente vetreria, mente la sponda destra era soprannominata Montagnana, o cascina del Lugo. “Sulla sponda sinistra – spiega Lazzari – si erigeva il fabbricato della Vetraria Cremonese soprannominato Marso, affacciato sulla via Morbasco adiacente ai bastioni di porta Po. Pertanto, dovendo indicare graficamente a qualcuno su che sponda del Morbasco si trovi la via Morbasco, quindi davanti al Marso, chi lo fa dovrà leggerlo sulla piantina topografica al contrario, da destra verso sinistra, cioè OSRAM. Così effettivamente doveva apparire a chi transitava sulla via Morbasco, o al postino addetto alla consegna postale destinata alla vetreria, che cercava quell’ubicazione sulla cartina. Come se dovesse leggerne un’insegna esposta sul tetto esterno della vetreria, rivolta verso l’interno del cortile, da dove, una volta entrati nel vialetto di passaggio verso l’ingresso, bastava girarsi per leggere Marso, quello che all’esterno appariva Osram”.
Nel frattempo nel 1888 era nata la “Sturla & C. Società di Elettricità” di cui era stato nominato amministratore il farmacista Francesco Cavana, presidente immobiliare membro del collegio sindacale della Banca Mutua Popolare, che era riuscito a farsi rinnovare per tre anni dal Comune la concessione per la realizzazione di installazioni elettriche “nella parte più popolosa e importante della città, allo scopo di distribuire energia per uso pubblico e privato, per l’illuminazione e la forza motrice”.  Tra le prime installazioni elettriche vi furono la stessa casa del Cavana, il caffè Soresini, il Garibaldi, la pagoda dei giardini pubblici di piazza Roma e i ritrovi mondani più esclusivi del centro. Al Cavana venne rinnovata la concessione anche nel 1890, grazie ai buoni auspici del sindaco Ferragni, nonostante l’amministrazione preferisse adottare ancora il gas per l’illuminazione delle strade e delle piazze, limitando l’uso dell’elettricità ai sobborghi o alle zone più buie, stante gli alti costi dell’energia elettrica. Ma la “Società Cremonese di Elettricità” era destinata ad avere vita breve. 
Erano gli anni in cui in Comune si iniziava a studiare la possibilità di produrre energia elettrica in proprio. L’ingegnere Giuseppe Vacchelli, ad esempio, intendeva applicare una dinamo ad una ruota di mulino posta in mezzo a due grosse barche ancorate nel corso di un fiume, e nel 1900 progettò una centrale elettrica a Mirabello Ciria, con cui il Comune si assicurò l’acquisto di energia a prezzo conveniente, sperimentando la realizzazione di cabine di trasformazione per ridurre la caduta di tensione provocata dal superamento di lunghe distanze. La linea venne completata nel 1903 nell’amministrazione comunale si fece strada l’idea di un organismo istituzionale di tipo pubblico che potesse sostitursi al privato nella distribuzione dell’energia elettrica. In breve la Società Elettrica di Cavana fu liquidata sfruttando una discutibile regola di procedura che prevedeva la possibilità di concludere una transazione senza riunire il consiglio comunale. La società fu acquisita dal Comune per 25.000 lire. Il Cavana, costretto a cedere la propria azienda al Comune, decretò in questo modo anche la fine della vetreria che fabbricava la famosa lampadina FR 900 OSRAM.  Erano “indubbiamente più durature delle Comune-Cremona al carbonio, ma nell’immediato poco capite ed accettate – osserva Lazzari – data la forte differenza di prestazioni luminose rispetto alle abituali in fibra vegetale. Per il momentaneo errato impiego della FR 900 il malcontento da parte del Comune e degli stessi cittadini aumentava, invece di diminuire. Lamentavano, date la luce difforme e gli ingannevoli giochi d’ombra prodotti dalle FR 900, di non riuscire a distinguere bene a distanza nell’oscurità delle nottate, le insidiose buche, gli immancabili dislivelli nel cuore cittadino, del selciato lastricato...Non si può definire un bell’esordio, quello della nostra prima lampadina a filamento metallico con arcolaio, se pur presentando soluzioni e caratteristiche d’avanguardia richiedeva in effetti un diverso tipo di distribuzione più folta e omogenea, per potere essere usata e utilizzata al meglio”. Nel 1904 Francesco Cavana entra a far parte della Vetraria Cremonese come socio amministratore, ma nel corso dello stesso anno ne decreta la chiusura.
“Se pur tecnicamente più valida e duratura – commenta ancora Lazzari – la FR 900 non aveva le caratteristiche compatibili con la primitiva tipologia impiantistica ancora in uso, nè risorse economiche proprie, o finanziamenti necessari per conquistarsi l’attenzione. I nostri ingenuamente pensavano che per vendere bastava avere un nuovo prodotto. Decretavano però in questo modo un altrettanto immediato, quanto rapido e mai pubblicamente risaputo declino, lo dimostra il fatto che la conoscenza e diffusone della nostra FR 900 non riuscì mai a varcare le mura della città di Cremona. Il Comune stesso, pur riconoscendo al Cavana il diritto di monopolizzare la FR 900 col suo stemma in esclusiva, al posto di impiegarle aumentando il numero delle lampadine accese sul territorio, ne prese le distanze liquidandole; le ritennero un lusso che non ci si poteva permettere. Preferì mantenere quelle ad arco, più costose in tutti i sensi e incrementare i becchi a gas di Auer. Pur dopo aver sperimentato i pregi della nuova illuminazione, specialmente durante le sontuose feste da ballo e di carnevale al teatro Ponchielli, magistralmente illuminate da grandiose piantane e lampadari equipaggiati proprio con le nostre lampadine, da sempre fabbricate in loco, uniche, impareggiabili nel loro genere”.