venerdì 16 agosto 2013

La guerra del dottor Sandro Rizzi

Il dottor Sandro Rizzi al lavoro

 Compie ottant’anni l’ex sanatorio di Croce di Salven a Borno, oggi in rovina in attesa di essere venduto dall’amministrazione provinciale, ma un tempo fiore all’occhiello della più grande campagna sanitaria mai realizzata nel Cremonese per debellare il territorio da una delle malattie considerate endemiche nella nostra popolazione, la tubercolosi, un flagello che colpiva prevalentemente contadini e operai. L’attività vi ebbe inizio nell’ottobre 1933, con l’inaugurazione dei sanatori il 22 ottobre 1934. Ma già dieci anni prima erano stati aperti i locali concessi alla Congregazione di Carità in via della Ruota a Crema, ed era già attivo dal 1921 il Dispensario antitubercolare di via Santa Maria in Betlem, chiuso solo nel 1978 in seguito alla scomparsa della malattia. Artefice di quella che sicuramente fu nelle nostre zone la più grande vittoria sanitaria del Novecento fu il tisiologo Sandro Rizzi, un medico di cui ingiustamente la nostra città si è dimenticata. Una persona d’altri tempi, Sandro Rizzi, nato a Cremona il 30 settembre 1877, con una autentica vocazione per lo studio e la cura delle malattie batteriche. L’aveva maturata alla scuola pavese del premio Nobel, Camillo Golgi, di cui era stato allievo interno in patologia e istologia, laureandosi nel 1903 con una tesi sperimentale sul vaiolo. Era stato lo stesso Golgi, intuendone le grandi capacità, ad insistere perchè il giovane medico cremonese si recasse in Francia, all’Istituto Pasteur di Lille, per apprendere come oltralpe si curasse la malaria. Dispensari antitubercolari, infatti, esistevano in Francia fin dal 1901, mentre in Italia si continuava a morire di tubercolosi, malaria e pellagra. Il dottor Rizzi questo lo sapeva bene. Lo aveva maturato in questo senso l’esperienza di medico condotto tra i contadini di Crotta d’Adda, raccontata anche in un libro, “Sei anni di lotta antimalarica”, al punto di costituire e dirigere nel 1912 la scuola per le infermiere volontarie della Croce Rossa con una promessa: quel primo gruppo di crocerossine sarebbero diventate sue assistenti quando avrebbe aperto il primo Dispensario antitubercolare a Cremona. In realtà, per coronare quel suo sogno, ci vollero ancora dieci anni e due guerre di mezzo.
Alla prima, dal luglio all’ottobre 1912, partecipò come tenente medico volontario all’ospedale di Campo Cremona in Tripolitania, dove vi erano altri due cremonesi, il medico Chiappari ed il farmacista Leggeri. Esiste anche una sua corrispondenza dal campo di Karakol sul fronte italo-turco nell’agosto, su alcuni fatti di sangue in cui perirono sedici soldati. Carriera militare e professionale si incrociano senza soluzione di continuità. Nel 1913 è in Francia dove frequenta i corsi di Colmette all’istituto Pasteur; nel 1915, prima dello scoppio della guerra è ancora a Pavia dove ottiene la libera docenza in igiene e pubblica un volume edito da Hoepli sulla epurazione biologica delle acque di rifiuto. Poi il nuovo impegno in guerra come capitano medico e direttore del gabinetto batteriologico a San Giorgio di Nogaro, in Friuli, dove era scoppiata nel frattempo un’epidemia di colera. E di nuovo all’Ospedale militare di Cremona come dirigente dei servizi igienici generali e direttore al laboratorio batteriologico dell’Ospedale maggiore, comprendente la batteriologia, l’istologia normale e patologica, e l’anatomia patologica. Sono quelli gli anni in cui si decide di realizzare il Dispensario centrale antitubercolare.
Nel 1921 si era costituito il Consorzio provinciale antitubercolare, che aveva come fine la prevenzione e la cura della tubercolosi in quei soggetti che non erano assistiti dall’Inps che, dal canto suo, gestiva il sanatorio Gaspare Aselli di via Milano. Erano anni difficili per la cura della malattia. Non esistevano antibiotici, che fecero la loro comparsa a Cremona solo grazie agli americani, ed i malati dovevano necessariamente essere confinati per anni in strutture apposite dove, semmai, potevano essere sottoposti solo a ripetuti interventi di pneumotorace per riassorbire le cavità che la malattia formava nei polmoni. Il Dispensario antitubercolare rappresentava quindi il primo segno tangibile di attuazione pratica della lotta antitubercolare in una forma diremmo “ufficiale” che vedeva l’intervento congiunto di Provincia e Comune. Istituito nel gennaio 1922 il Dispensario ebbe originariamente sede in alcuni locali del palazzo della Provincia in via Martiri Fascisti. Nel 1925 venne trasferito in quella che allora era la periferia della città, in una zona circondata da orti e giardini in un fabbricato di proprietà del Consorzio in cui si trovava anche il Laboratorio di igiene e profilassi. Direttore era il dottor Sandro Rizzi, grazie alla cui opera instancabile, si riuscì a vincere la diffidenza iniziale dei medici ad inviare i propri pazienti alla struttura.
Il dottor Rizzi tra le prime crocerossine diplomate
Già durante i primi mesi di funzionamento nella vecchia sede il Dispensario era riuscito a raccogliere rapidamente la grande maggioranza dei tubercolosi di guerra. In breve tempo il numero giornaliero delle presenze andò da un minimo di 60 ad un massimo di 120. Nel 1932 l’amministrazione consortile decise di costruire un nuovo dispensario centrale, da sistemarsi nella stessa area ancora libera, affidandone il progetto all’ingegner Verdelli. La nuova sede fu inaugurata nel 1937 alla presenza della regina Elena.
Un programma vastissimo ed irto di difficoltà attendeva il dottor Sandro Rizzi ed il suoi collaboratori, l’aiuto Emilio Morandi, l’assistente Emilio Priori ed il radiologo Raimondo Vergani.
Ancora negli anni Trenta vi erano interi quartieri della città in cui i focolai di tubercolosi si moltiplicavano a causa del maggiore affollamento e della precarietà delle condizioni igieniche.
Erano i rioni popolari di porta Mosa, porta Romana, via Gonzaga e via Giordano, via Mantova, via Giuseppina e via Milano. Da queste zone veniva la maggior parte degli ammalati, presenti in forte concentrazione tra le casalinghe (169 casi su mille), i contadini (133), le sarte e le cucitrici (106), gli scolari e gli studenti (100) ed in percentuale inferiore nelle altre categorie.
Nel 1931, in occasione del decennale di attività, venne compiuta una prima indagine statistica, dalla quale risultò che si erano effettuati ben 9.786 accertamenti da cui era risultato che solo 1.622 casi non erano stati riconosciuti come Tbc. Per il resto 909 riguardavano tubercolosi polmonari aperte, 2.275 tbc polmonari chiuse, 434 pleuriti, 823 forme inattive polmonari e pleuriti, 361 tbc extrapolmonari, 1.620 adenopatie e ben 1.742 casi di linfatismo, anemia e gracilità.
Sommando i dati di città e campagna i più colpiti dal contagio risultavano gli operai e gli agricoltori, anche se la maggior incidenza della tubercolosi veniva fatta risalire soprattutto alla presenza di manodopera straniera.
Dal 1921 al 1930, d’altronde, si notava un calo della mortalità che dall’1.02 per mille era passata allo 0.83, sempre in ogni caso inferiore all’indice di mortalità registrato nel resto dell’Italia.
Fino agli anni Quaranta la tubercolosi poteva essere curata esclusivamente con pneumotorace. Fu proprio il figlio di Sandro, Alberto Rizzi, dirigente incaricato all’Ospedale Maggiore, a sperimentare per primo a Cremona la streptomicina, fornitagli dagli americani. Riuscì ad averne a disposizione 30 grammi per curare una ragazzo di dodici anni afflitto da tubercolosi faringea, inviatogli morente. Nel giro di due mesi, con il nuovo antibiotico, Imerio, così si chiamava il ragazzo, riprese a deglutire ed a nutrirsi e poco dopo guarì. In seguito gli alleati fecero nuove assegnazioni e si poté iniziare la cura degli adulti, aprendo una nuova fase nella lotta alla malattia.
I piccoli ospiti di Borno nel 1934
Verso la fine del 1921 il comitato fu sciolto e ne venne costituito un altro con lo scopo di intensificare il servizio della cura climatica. Dopo alcune ricerche il 13 maggio 1923 venne affittato per cinque anni un vasto fabbricato situato a circa 600 metri di altezza a Cislano, una frazione del Comune di Zone sul lago d’Iseo, che venne riconosciuto adatto ad ospitare almeno una quarantina di degenti. I primi ospiti, uno scaglione di 41 invalidi, vi giunsero una mattina di luglio e vi rimasero per 45 giorni. A questi ne seguirono altri e le richieste aumentarono nei due anni successivi fino a superare le 80 unità per turno. Fu così che il Comitato maturò l’idea di costruire un edificio ex novo in una località più idonea e di facile accesso. Il Comune di Borno in Valcamonica concesse gratuitamente un’area di circa 5 mila metri quadrati, situata in località Croce di Salven. Si iniziò subito lo studio del progetto tecnico che in un primo tempo doveva comprendere la costruzione di un semplice padiglione per il ricovero di circa 50 degenti. Ma la difficoltà di far fronte al finanziamento dei lavori costrinse il Comitato a richiedere l’intervento del Consorzio provinciale antitubercolare. I due enti decisero di dare avvio alla costruzione di un fabbricato più ampio, con tutti i requisiti di un istituto a carattere sanatoriale, in cui si sarebbero dovuti ricoverare gli ammalati appartenenti alla provincia di Cremona. Il Consorzio si incaricò della stesura del progetto, elaborato e più volte modificato dall’ingegner Achille Verdelli in collaborazione con l’architetto Vito Rastelli. Il nuovo sanatorio venne a sostituire integralmente la colonia di Zone per i tubercolotici di guerra, così che il Comitato provinciale, esaurito il suo compito, si sciolse il 2 giugno del 1930.
Sandro Rizzi morì a 67 anni di età l’8 gennaio 1945, vittima delle sue stesse creature. Nel 1944 l’aiuto dottor Vergani era stato richiamato alle armi e Rizzi dovette sobbarcarsi da solo l’onere delle visite nei dispensari periferici che per sua stessa iniziativa erano stati creati. La dosi di radiazioni accumulate in questi periodo gli furono fatali. Nessuno, infatti, in quei tempi ancora pionieristici per la lotta antitubercolare, faceva molto caso all’esposizione ai raggi che venivano usati a scopo diagnostico.
Dal 1923, d’altronde, dopo l’apertura della struttura centrale cremonese, dispensari erano sorti nelle principali località della provincia. Quell’anno furono aperti, a spese del Consorzio, i locali concessi dalla Congregazione di carità in via della Ruota a Crema. Dopo pochi anni erano già divenuti insufficienti alle esigenze della popolazione ed il dispensario fu trasferito provvisoriamente all’Ospedale civile dove rimase fino alla sua sistemazione definitiva nel luglio del 1931 presso il fabbricato del Monte di Pietà. Il 23 novembre 1924 iniziò a funzionare in alcuni modesti locali annessi all’Ospedale civile, il dispensario di Casalmaggiore, ma dopo pochi anni anche questo risultò insufficiente e fu trasferito in una nuova sede adattata nel 1931. Sempre nel maggio 1930 iniziò la sua attività il dispensario periferico di Rivolta d’Adda, infine il 3 marzo 1931 iniziò a funzionare in una prima sede provvisoria presso la casa di riposo Zucchi la struttura di Soresina, trasferita poi al piano terreno del padiglione Bertolotti, di nuova costruzione.
Nel giro di due anni, nel biennio 1930-31, in queste nuove strutture vennero complessivamente eseguite 5.916 ricerche. Nel 1927 il dispensario centrale di Cremona aveva nel frattempo iniziato il trattamento pneumotoracico. Nel primo quinquennio di attività vennero assistiti complessivamente 97 ammalati portatori di pneumotorace, sia presso gli Ospedali riuniti, che presso istituti sanatoriali o a domicilio o su ammalati che avevano rifiutato il ricovero in luogo di cura. Complessivamente vennero praticati 3.768 rifornimenti, senza che si verificasse mai alcun tipo di incidente. In verità, però, un terzo dei pazienti peggiorava o moriva durante la cura, ma il 18.60 per cento poteva dirsi guarito ed il 44.18 per cento in via di esserlo. Nella loro totalità, una volta entrati regolarmente in funzione, i dispensari provinciali alla fine del 1931 avevano praticato accertamenti sul 33.96 per cento degli abitanti dell’intera provincia ed il solo dispensario centrale di via Santa Maria in Betlem aveva raggiunto addirittura il 48.22 per cento degli abitanti che facevano capo alla sua circoscrizione. Si trattava nel 1922 di oltre 170 mila abitanti. Altri 78 mila facevano riferimento al dispensario periferico di Crema, 45 mila a quello di Casalmaggiore, 16 mila a Rivolta d’Adda e oltre 54 mila a quello di Soresina.  

Archimedi cremonesi

Il ventilatore di Alessandro Capra

Una leggenda vuole che il più famoso orologiaio di ogni tempo, genio celebrato dell’ingegneria idraulica e meccanica, vedesse la luce in una notte di tempesta proprio nel momento in cui uno dei tanti fulmini che si abbatterono nei suoi tanti secoli di storia sul Torrazzo, ne distruggeva il famoso orologio.
“Novello Archimede, principe degli artifici, brutto come bue in forma umana, ma acutissimo di cervello.” Così Garcia Diego descrive Janello, o Giannello Torriani, il più famoso tra i fabbricieri di artifici al servizio della cattolicissima corona di Spagna, precursore di generazioni di meccanici, architetti e inventori cremonesi, nato forse nel 1511. “Fabbricieri” erano, allora, quei maestri di agricoltura che, immessi nel sistema della “encomienda” che era poi la terra assegnata ai Commendatori della Corona di Spagna, avrebbero dovuto divulgare nel mondo, nelle intenzioni della Corona di Spagna, le tecniche agrarie maturate in Lombardia, terra solcata dai fiumi e considerata la più fertile di quell’impero su cui mai tramontava il sole. Studiando e diffondendo elementi di ingegneria idraulica e molitoria giunsero al punto alla fine del XVI Secolo di fondare la specifica cattedra “cremonese” di Coimbra grazie al lavoro del benedettino Don Joao Torriani a sua volta, con ogni probabilità, nipote di Janello che, proprio per appartenere all’ordine dei benedettini, doveva essere espertissimo di coltivazioni e bonifiche. Janello Torriani, a Cremona, già negli anni della sua prima adolescenza, era stato individuato come un precocissimo talento dal medico, filosofo e matematico Giorgio Fondulo, un cattedratico dell’Ateneo di Padova che lo aveva guidato nelle prime ricerche e indirizzato negli studi di meccanica ed astronomia. L’allievo di Fondulo prometteva un grande avvenire: sarebbe stato un eccellente meccanico delle sfere celesti, un maestro nella difficile arte dell’aequatorium, un principe degli orologiai degno, un giorno, di stare, come “Principe degli artifici” al fianco del grande imperatore. Sì, perché quando gli eventi, grazie a Carlo V cambiarono, allora fu anche il tempo di aggiustare gli orologi astronomici delle grandi torri: per segnare il tempo nuovo di un nuovo regno. L’orologio della Torre Viscontea di Pavia era guasto da tempo, ma era opera di un genio, il Dondi, capolavoro assoluto di ogni età (tuttora lo si conserva presso lo Smithsonian Museum di Washington). A nessuno era riuscito di rimetterlo in sesto neppure in occasione della incoronazione di Carlo V, avvenuta in Bologna nel 1530. Il solo Janello vi riuscì, ma per rifarlo, e più complicato di prima, impiegò quasi vent’anni. Però, una volta veduta l’opera, re Carlo, che per gli orologi aveva una vera e propria mania, volle con se l’orologiaio di Cremona che l’aveva compiuta. Così cavalcarono insieme per anni nelle guerre di Sassonia e poi in Fiandra ove Janello inventò macchine da guerra e giochi per divertire, secondo i racconti dell’abate Strada: “Un mulino era così piccolo da stare nella manica d’un monaco e pure macinava grano per otto persone al giorno: uccelletti di legno volavano via per la finestra e poi rientravano dalla stessa; marionette facevano battaglie tra fulmini, tuoni e piogge”. Ormai si era affermata la fama della maestria di Janello nell’aequatorium, cioè l’arte di costruire orologi planetari e negli “automata”, pupazzi e bambole danzanti ora sparsi nei musei di mezza Europa, ma soprattutto nelle sfere armillari: quelle da lui costruite in giovane età già contenevano i presupposti della riforma gregoriana del calendario che si sarebbe concretata mezzo secolo più tardi, nel 1582. Janello ebbe pure una squisita sensibilità musicale, se è vero che, interpellato circa l’intonazione delle campane del monastero dell’Escorial, ordinò a mente i pesi esatti e le forme delle campane soprano, contralto, tenore e contrabbasso senza l’uso di scrittura o comunque di verifiche sperimentali: pochissimi musicisti vantano l’orecchio assoluto, ossia la facoltà di riconoscere una nota, suonata, ad esempio da una campana, senza l’aiuto di un corista o diapason che intoni il “la” di riferimento. 
La ballerina di J. Torriani
Le realizzazioni per cui Janello andava famoso furono comunque gli “automata”, quelle specie di robot, capaci di fare determinate cose che, fin dal tempo degli egizi, l’uomo si era appassionato a costruire e proprio Janello, vista la familiarità di questi meccanismi con quelli degli orologi, ne divenne il costruttore più abile a fantasioso. Dal 1556 al 1558 ne realizzò un’infinità per allietare il ritiro monastico di Carlo V nel convento di San Yuste in Estremadura. E’ curioso, tuttavia, osservare come il suo principale estimatore, il grande medico e matematico pavese Gerolamo Cardano, non ne parli, lasciando alla leggenda questa prerogativa, ma proprio la leggenda gli attribuisce la costruzione di quegli “androidi” che sono senz’altro i più difficili da realizzare tra gli automi. Al Kunsthistorische Museum di Vienna è conservata la “danzatrice” il primo “automata” attribuito a Janello Torriani, capace naturalmente di danzare: anche esteriormente la realizzazione appare stupenda; la capigliatura fulva, i particolari curatissimi nonostante le piccole dimensioni, il portamento maestoso, splendido il vestito, e il meccanismo le consente movimenti straordinari. Il “frate” è invece conservato al Museo di Washington. E’ alto solo 39 centimetri ed è programmato per percorrere un quadrato di circa 60 metri di lato. I piedi sono visibili, si muovono spuntando sotto l’abito, però corre su piccole ruote e compie piccoli movimenti con le braccia come a dare la benedizione e muove costantemente la testa assentendo, aprendo e muovendo la bocca e gli occhi.
Alessandro Capra

Con ogni probabilità mutuò qualche idea da Giannello Torriani anche Alessandro Capra (1608-1683) per i suoi libri di architettura, dove descrive una quarantina di macchine che oscillano tra l’utilità e il fantastico, tratte in parte dall’esperienza quotidiana dell’uso fatto in famiglia e parte frutto di autentica invenzione. Un vizio di famiglia il suo, visto che già il padre Agostino, e in seguito i figli Domenico e Angelo, era stato un esperto nella costruzione di macchine e si era interessato ai problemi del controllo dell’erosione delle sponde del Po causata dalla corrente. Alessandro aveva aperto in casa sua anche una bottega dove, oltre a svolgere i compiti derivanti dalla sua attività ufficiale di geometra o architetto, ma anche agrimensore, aveva sistemato le macchine di sua invenzione, grazie alle quali riuscì a ottenere non poche commesse anche dall’estero. Di queste macchine è rimasto il ricordo nel quinto libro della “Nuova architettura famigliare” pubblicata a Bologna nel 1678. Si tratta perlopiù di battipali, di macchine per il sollevamento e quindi di uso cantieristico, a fianco di altre per rassodare la pasta o setacciare la farina, e quindi di uso artigianale o familiare. Di una di queste dice: “Questa Gramola fu fatta l’anno 1632, e sempre si è adoperata fino all’anno 1677, à gramolare la pasta da far il pane alla mia famiglia di dieci, e quattordici persone, si si gramola alla volta un partone di pasta di un peso, e mezo comodamente, con un’huomo alla stanga, e l’altro a tener sotto la pasta”. Ma si tratta soprattutto di mulini, di svariati tipi, manovrabili da uomini, animali, oppure idraulici: meccanismi che nascono da esperienze, ingegnosi e semplici anche quando svolgono funzioni complesse. Spesso Capra presenta anche meccanismi curiosi, costruibili, ma di dubbia praticità o di applicazione molto limitata, come il ventilatore azionato da pesi mobili, di cui fornisce anche l’immagine e la scheda tecnica: “Bisogna dunque formare una ruota di legno sottile, e leggiera, mà grande nel suo diametro brazza 3 in circa, più o meno, in guisa che, con cinque o sei ventagli, di larghezza oncie 6, incirca, e oncie 12, in circa di lunghezza, posti in declivio nella sua circonferenza, coma la segnata P. riempia tutto il cassaro del camino. E parimente sa di mestieri aggiustare la stessa ruota sopra de’ poli, et a suo centro la ruotella, con’è dissegnato nella figura 32. Oltre ciò, s’hanno da formare due girelle R. entro la mazza del Camino, ouero in altro sito eminente, conforme al luogo che piace, poi attaccata una fune per un capo alla ruotella Q e ravoltatagliela attorno, si faccia passar con l’altro capo sorpa una dlle girelle R. à quello si attacchi un peso sufficiente, per muovere, e girare la ruota P. Mà perchè il peso, dopo hauer scaricato la ruotella Q. della fune, che se gli avolge attorno, non ha più forza di muovere la ruota, è necessario attaccare pure alla medesima ruotella altra fune per un capo volgendogliela intorno, come la prima; per l’altro capo passata sopra la seconda girella R. attaccarli un peso minore dell’altro, conciosiache tirandolo poi, scaricarà la ruotella della sua fune, e la caricarà con l’altra del peso maggiore, e si verranno à continuare con il moto della ruota, e suoi ventagli, le delizie del fresco”. 
Carrozza a tachimetro di A. Capra
Oltre a questi meccanismi veri e propri Capra progetta anche una fontana perpetua che lui afferma di aver sperimentato con successo, ma che in realtà è irrealizzabile. Sono invece probabilmente il frutto di attività teatrali, destinate a suscitare curiosità e meraviglia, le fontane pensili, che per effetto di pesi e contrappesi manovrabili a mano, zampillano in continuazione. Un’altra curiosità riguarda il metodo inventato dal Capra per suonare più campane contemporaneamente con un solo campanaro, grazie ad una serie di contrappesi. Un metodo frutto della sperimentazione, come spiega lui stesso: “Mi sono servito nelle occasioni delle balle di ferro dell’Artigliere, che furono sbarrate dai francesi nella guerra sotto la città di Cremona, l’anno 1648, e con le sudette balle ho fatti molti contrapesi in diverse occasioni di campane, e frà l’altre adì 19 dicembre 1675, fece accomodare la campana grossa delli RR.PP. Di S. Domenico, la quale per suonarla vi volevano almeno quattro huomini, per essere di pesi 200, e io gli feci ponere il contrapeso nel modo sudetto, e ora un’huomo solo la suona, e quando devono suonarla lungamente, con due huomini suonarà tutto il giorno”. E che dire del primo esempio di contachilometri? Il Capra propone il disegno di due carrozze a due e quattro ruote, con un meccanismo che permette di misurare il percorso compiuto attraverso una trasmissione basata su una vite senza fine.
Fu un bizzarro emulo di Janello Torriani, quel Francesco Antoniazzi che nel 1783 aveva inventato una macchina meccanica, simile ad una donna, in grado di lavorare al telaio 24 ore su 24. Avrebbe voluto farne una produzione industriale vera e propria, ma i suoi concittadini non gli diedero fiducia e così, deluso e in preda allo sconforto, prima di morire la distrusse senza lasciarne alcuna traccia. Eppure Antoniazzi doveva avere un genio particolare per la meccanica ed anche per il marketing, visto che della sua particolare invenzione se ne occupa anche il periodico “Notizie del mondo”, pubblicato a Firenze dal 1768 e poi fuso nel 1791 con la “Gazzetta Universale”. All’inventore cremonese è dedicata una corrispondenza del 14 maggio 1783, ricca di particolari sulla donna meccanica. Di lui parla anche Vincenzo Lancetti nella sua “Biografia Cremonese”, da cui apprendiamo la fine ingloriosa del progetto, per cui si era scomodato anche l’arciduca di Milano: “Il serenissimo arciduca Ferdinando d’Austria governatore dello stato di Milano venne espressamente a Cremona l’anno 1783 per ammirar questa macchina – scrive il Lancetti - e non equivoci pegni d’aggradimento lasciò all’autore. Ma essa non venne altrimenti posta in uso da alcuno, tanto è l’indolenza degli Italiani rispetto alle invenzioni nate in casa loro, nè sappiamo dove sia andata a finire. Credesi che l’Antoniazzi (che era di un umore stranamente bizzarro), indispettito di non poterla ripetere per commissione de’ negozianti ne rompesse il modello poco prima della sua morte, avvenuta verso la fine del secolo”.
Come funzionava dunque la prodigiosa invenzione dell’Antoniazzi? L’inventore cremonese aveva calcolato tutto, predisponendo un vero e proprio business plan: la sua donna era in grado di svolgere il lavoro di cinque filatrici in carne e ossa, non aveva necessità di riposare e, calcolando che avrebbe potuto lavorare anche di notte, i proventi dell’attività sarebbero raddoppiati. Ma vediamo come i contemporanei descrivevano il marchingegno: “Francesco Antoniazzi, nativo cremonese, ha inventata una macchina consistente in una donna al naturale, che siede ad un tavolino sul quale si trova un ben concepito, e galante mulinello, e lo tiene in azione per sette ore continue veggendosi in tutto il braccio destro tutti i movimenti naturali, che corrispondono a quello della mano. Colla sinistra poi, la quale si trova a proporzione alzata dirimpetto al mento, stringe con le prime due dita il filo della seta tenendo le atre tre dita elegantemente distese, e muore regolarmente la mo solo per quanto è lungo il cannoncino, acciochè la seta possa essere sul medesimo distribuita colla più perfetta uguaglianza, come in fatti succede. Se si incontra un groppo nella seta, ella si ferma; tosto però, che qualche persona si accosti a scioglierlo, essa continua a lavorare senza che sia necessaria altra operazione verso di lei. Se poi la seta per qualche accidente si rompe, o si trova rotta, essa continua bensì a travagliare inutilmente, ma senza produrre niuno sconcerto. E tanto nel primo, che nel secondo caso accorgendosi il padrone, che può ritrovarsi anche in un’altra camera, dell’imbarazzo della sua macchina, può correre in un momento a soccorrerla col solito nodo. Quando la macchina lavora, se il padrone ha piacere di fermarla, non fa che toccare leggiermente con due dita un perno del mulinello, e co due dita parimente tocando lo stesso perno le restituisce il moto. L’autore di questa macchina, oltre il merito dell’invenzione, ha ancora quello dell’esecuzione, poiché tutto è lavoro delle sue mani, non eccettuando cosa alcuna. Egli ha fatto un calcolo, e trova che la sua donna di legno gli guadagna quattro lire al giorno di questa moneta, e potrebbe guadagnargli anche di più facendola lavorare la notte. Gli ha speculato quasi tre anni per ridurre la sua macchina a questo stato: ora la mostra a tutto il mondo, ed essa è ammirata da tutti come cosa singolare. Ove questo industrioso meccanico trovasse incoraggiamento e protezione, potrebbonsi certamente da lui sperar cose ancor maggiori”.