sabato 15 marzo 2014

Le profezie di Fulvio Cazzaniga, moderno Nostradamus

Corso Campi agli inizi del Novecento

Quanti errori urbanistici si sarebbero potuti evitare se i nostri amministratori avessero prestato maggiore attenzione a quanto profetizzava quasi centocinquant'anni fa Fulvio Cazzaniga! Senza aver bisogno di piani regolatori o grandi alchimie urbanistiche, il direttore del “Corriere cremonese” nell'assolato agosto del 1871 disegnava il futuro della città fino al duemila con un'intelligenza e una lungimiranza senza precedenti. La città per lui non aveva segreti: con una perspicacia ed un intuito che ancora adesso lasciano stupefatti Cazzaniga, tra il serio e il faceto, in una serie di articoli intitolati “Una bizzarria, cronologia anticipata dell'edilizia cremonese”, pubblicati sui numeri 66 e 67, stendeva le linee generali dello sviluppo urbanistico futuro. Un po' per gioco ed un poco per provocazione, quello spirito libero ed audace immaginò come sarebbe stata la sua Cremona dopo la sua morte. Date, ricostruzioni e nuovi assetti, periodici storici perfettamente delineati, un chiara visione dello sviluppo urbanistico e delle sue direttrici, lo sventramento del centro storico, lo spostamento delle funzioni direzionali. Tutto è presente in quelle poche colonne scritte strettissime, senza fotografie, ma estremamente chiare e profetiche. Come abbia fatto Cazzaniga è un mistero. Sta di fatto che quella che lui stesso definì una “bizzarria” e che probabilmente come tale voleva venisse considerata, è quanto di più attuale esista oggi in fatto di pianificazione urbanistica. La sua lunga carrellata sulla cronologia anticipata dell'edilizia cremonese procede di vent'anni in vent'anni. Si inizia con il 1880: in quell'anno Cazzaniga ipotizza l'ultimazione dei giardini pubblici di piazza Roma, dopo la demolizione del complesso di San Domenico. “Ora che le sue piantagioni sono cresciute – scrive – lo si riconosce il più bel ornamento di Cremona, ed è oggetto di invidia in tutte le città vicine. A poco a poco tutte le case prospicienti sul giardino si sono alzate d'uno o più piani, ed abbellite. In parecchie di esse si aprirono alberghi, caffè grandiosi, birrerie e fondaci sontuosi. Un speculatore ha comprate le case Anselmi e Pagliari, e vi ha fabbricato un teatro di mezzana capacità per la Commedia e l'Opera buffa”. I giardini pubblici vennero inaugurati effettivamente nel 1878 e il teatro Ricci, edificato una prima volta nel 1859 venne ripristinato dopo il furioso incendio del 1896, prendendo il nome di Politeama Verdi. Sempre negli stessi anni si ipotizza la sistemazione dell'ufficio postale (avvenuta realmente nel 1885), la copertura dei due canali Cremonella e Marchionis e la sistemazione definitiva del selciato delle vie e delle piazze della città: “Finalmente per ogni dove si vada si cammina bene, e la pulizia è ovunque”, esclama soddisfatto Cazzaniga, destinato ad essere esaudito solo nel 1902, con due anni di ritardo sulla previsione, con il primo tratto di superficie stradale bitumata in piazza Roma.
Via Solferino

Della localizzazione del nuovo palazzo delle Poste si iniziò invece a parlare nel 1913, mentre la prima decisione in materia per piazza Filodrammatici, ipotizzando il nuovo ufficio in casa Grasselli, fu del 1920. La decisione definitiva per corso Campi fu adottata nel 1925, prevedendovi di fronte una grande piazza di contorno. Una delle preoccupazioni maggiori del nostro direttore era l'accesso alla stazione ferroviaria: Cazzaniga ipotizzava che verso il 1900 l Comune decidesse di demolire parte dell'albergo San Giorgio e del vicino mulino, rimangiandosi in seguito tutto quanto nel giro di pochi anni: “Riconosciuto lo sproposito dell'accesso alla stazione ferroviaria – annotava il giornalista per il ventennio 1900-1920 – vi si rimedia con l'adozione dell'altro progetto, quello di aprire nelle mura del Passeggio una barriera, che prospetti la stazione e serva di sbocco alla via Diritta, per la quale si penetra nel cuore della città più presto e senza tante svolte? Visto che il livello stradale sul crocicchio di via Affaitati coincideva perfettamente con quello della stazione ferroviaria, si coordinarono insieme mediante un alzamento della strada e con opportuno e graduale abbassamento del piano del Passeggio. Un vasto piazzale abbellito da piantagioni con costruzioni simmetriche ai lati della barriera prospetta la stazione; e praticato un lieve rettifilo al locale delle Orsoline, la via Diritta, fiancheggiata da palazzi, e una delle prime arterie della città, viene per così dire restituita al comodo ed al pubblico decoro”. Diabolico Cazzaniga, degno emulo padano di Jules Verne: il giardino della stazione fu realizzato nel 1987, sedici anni dopo, e nel 1906 iniziò il dibattito sull'abbattimento del pubblico Passeggio. Due anni dopo fu spostato nei giardini della stazione il monumento a Garibaldi, fino allora davanti a palazzo Cittanova, e nello stesso periodo venne realizzato il prolungamento di via Palestro. Non pensiamo che Cazzaniga, spirito polemico per eccellenza, possedesse doti paranormali. Certamente, oltre ad avere una profonda conoscenza della città e dei suoi problemi, aveva dalla sua il desiderio di cambiarne in qualche modo l'evoluzione, migliorandola, venendo incontro a quello che era il buonsenso comune.
Un esempio è quello del rettifilo di corso Vittorio Emanuele, ipotizzato dal nostro Cazzaniga a cavallo tra il 1900 ed il 1920. Si cancella finalmente quello monumentale sproposito degli uomini pratici ed economici che reggevano il Comune nel 1840 o lì per lì; togliendo la mostruosa sporgenza delle case, dopo il Teatro in via Po; e si spende dieci volte di più di quanto sarebbe costata l'opera eseguita suo tempo”.
Si sbagliò, invece, Cazzaniga sui tempi di abbattimento della cinta muraria che individuò nel ventennio, mentre invece i lavori ebbero inizio nel 1908 con la soppressione di porta Po e porta Venezia, seguita nel 1910 da quelal di porta Romana; per piazza Lodi, che avrebbe dovuto diventare un elegante “square”, si pensava che prima o poi qualcuno avrebbe richiesto di farvi un mercato, mentre in realtà, in tempi non sospetti, vi sorse un supermercato. Il giornalista individuò anche cn incredibile perspicacia la necessità di costruire una galleria coperta, m ne sbagliò, seppur non di molto, la collocazione. Dai giardini di piazza Roma una tettoia coperta a vetro avrebbe dovuto condurre attraverso l'attuale via Solferino fino in piazza del Duomo.
La galleria, come sappiamo, venne edificata sul lato opposto dei guardini tra il 1932 e il 1934. Incredibile invece la “profezia” su piazza Stradivari, che Cazzaniga progettava di allargare per fare spazio al mercato. Siamo tra il 1920 e il 1940. Sentite un po' cosa scriveva: “Si rende indispensabile di allargare piazza Cavour. A quest'uopo da un lato si prolunga il portico del caffè Soresini fino al Giardino Centrale, e dall'altro si abbatte casa Rossi. Il Comune si riserva in avvenire, se il bisogno lo esigerà, di demolire anche l'isolato fra piazza del Lino e piazza Cavour. Intanto i Cremonesi, oltre la Galleria di Becchiere Vecchie, hanno un porticato, ove passeggiare al coperto dalal pioggia, dal vento e dalla neve”. Palazzo Galizioli venne abbattuto nel 1935 e l'anno successivo venne presentato il progetto per la grande Piazza Littorio, dopo che venne abrogato il vincolo monumentale; nel 1938 vennero abbattuti i portici orientali di piazza Cavour per la costruzione della sede delle Corporazioni, mentre l'anno successivo vennero espropriate le case sul lato ovest. Insomma farinacci, che conoscesse o meno le indicazioni del suo illustre concittadino, arrivò alle stesse conclusioni nel tempo programmato, ed a distanza di 125 da quelle profezie, nel 1996 il Comune pensò ad una nuova sistemazione della piazza, conclusa un paio d'anni dopo.
E veniamo al 1940: per quella data Cazzaniga pensa venuto il momento di isolare il Duomo. In effetti il piano regolatore che lo prevede è del 1914 e nel 1926 per l'isolamento completo mancava solamente l'abbattimento del fabbricato della Canonica, la sistemazione del Camposanto e il taglio rispetto al palazzo vescovile, ultimati nel 1933. Ma forse è più interessante annotare quanto il nostro scriveva al proposito dello sviluppo urbanistico del villaggio Po: “Un argine di prim'ordine, largo, alto e robusto, si costruisce lungo la sponda sinistra del Po da Cava Tigozzi fino allo stradone passeggio. Il sobborgo ed i quartiere interni di porta Po sono così solidamente garantiti. La sicurezza crea la fiducia, e sorgono dappertutto fra il Po e la città fabbricati e ville. Il Morbasco esso pure fortemente arginato, si adorna di pubblici passeggi, di stabilimenti di bagni e di lieti ritrovi”. Forse era un po' troppo ottimista riguardo al Morbasco, che pure è stato depurato e inserito nell'ambito del parco sovracomunale, ma non si sbagliava nel successo del villaggio Po: la prima licenza edilizia a scopo residenziale è infatti del 1902 e negli anni Cinquanta e Sessanta il villaggio ha conosciuto quella forte crescita che Cazzaniga proprio per quegli anni antecedenti il 1970 aveva auspicato. E sempre in quegli anni si sarebbe dovuto avverare uno dei tanti sogni nel cassetto del giornalista: la sistemazione definitiva di palazzo Ala Ponzone, “adattato a sede dei corpi scientifici, letterarj ed artistici della provincia; giacchè si è riconosciuto che il sapere è una potenza civile, la quale in ciascuna provincia dello Stato ha il diritto di un'alta rappresentanza. Quivi si allogano gli uffici dell'Istituto Politecnico, dell'accademia di Belle Arti, del Museo Civico, ecc. e si collocano le doviziose collezioni delle scienze e delle arti”. Un sogno, abbiamo detto, ma non lontano dall'essersi realizzato: il museo in palazzo Ala Ponzone fu inaugurato effettivamente nel 1888, anche se il progetto della città studi interessò poi invece palazzo Fraganeschi con la costruzione della scuola industriale e quello del polo culturale di palazzo Affaitati, acquistato nel 1924, dove nel 1938 si inaugurò la Biblioteca Governativa.
Il libro dei sogni si chiude con il Duemila: dal 1970 la Banca Popolare ha sede “in un grande e maestoso fabbricato” posto su uno dei lati dei giardini pubblici (in realtà è poco lontano, in via Cesare Battisti), “la quale per lo sviluppo colossale di questa istituzione non poteva più capire in casa Schizzj, ove stette per più di un secolo, e che ha ceduto alla Società degli Operaj, essa pure assai prospera per il suo governo e per varie vistose eredità conseguite”.
Viale Regina Margherita, oggi viale Po
Le ex caserme austroungariche sono diventate sede di scuole e musei: “Il vasto locale del Corpus Domini viene trascelto per la sede del Museo industriale cremonese e a tal uopo lo si adatta decorandolo anche al di fuori di una facciata maestosa e conveniente. Quivi sono insediate le scuole professionali delle arti dei mestieri; e si raccolgono le collezioni di tutti gli strumenti inservienti alle industrie, dai più antichi ai più recenti. V'ha altresì la raccolta storiche dei campioni e quella dei modelli di tutte le macchine più utili e più usate in qualsiasi manifattura. Si approfitta dei cortili e delle ortaglie attigue per costruirvi il locale delle esposizioni industriali...”. Come non pensare al parco dei monasteri?
La città degli anni Settanta presenta, ovviamente, problemi di traffico ignoti al nostro direttore che, con lungimiranza davvero eccezionale riesce però a prefigurarsi un quadro non del tutto privo di verosimiglianza. “La maggior parte delle sue case – scrive – si sono alzate di uno o più piani; e la sua arteria principale, il Corso, riesce in molti punti troppo angusto, e quindi d'impaccio e pericoloso alal circolazione. Corretto qua e là a piazza Garibaldi, dove già furono l'albergo del Sole, casa Finzi ecc. dove maggiore è il bisogno e il lavoro è nella stretta che incomincia di fronte all'oreficeria Isacchi e prosegue. Si trova quindi indispensabile di fare il relativo rettifilo sulla linea dell'Albergo Italia fino alla via Ariberti o del Teatro. E così si ha la compiacenza e il vantaggio di possedere l'arteria principale della città quasi diritta; la quale principia dalla stazione ferroviaria e con poche deviazioni termina in piazza Cavour. La spesa sarebbe stata minore se anche qui non si avesse dovuto correggere e scontare uno sproposito dei nostri maggiori, uomini pratici ed economi, i quali per poche migliaja di lire nel 1820 o lì per lì si lasciarono sfuggire l'occasione di comperare e demolire lo stabile degli Orfanotrofi che ingombrava il Corso”. Al rettifilo di corso Campi si iniziò a pensare nel 1924 con l'acquisto di alcune case da parte del Comune sui lato ovest. Il piano regolatore vero e proprio venne elaborato nel 1926, quando venne edificata dall'architetto Ranzi la facciata del palazzo della Cooperativa dei Sarti. Un anno dopo veniva edificato il palazzo Pizzamiglio sull'angolo di via Guarneri, poi sede delle Assicurazioni Generali. Un nuovo acquisto di case, questa volta sul lato est venne deciso nel 1929, mentre nel 1930 si abbatteva una casa posta in piazza Cavour sempre sul lato orientale di corso Campi. Nel 1931 si iniziavano le demolizioni per far posto alla galleria XXV Aprile, con il primo progetto a T dell'ingegner Mori che risparmiava le case verso il giardino pubblico. Nel 1933 si completarono i lavori per il primo lotto della Galleria, iniziando nel frattempo le demolizioni per la realizzazione del secondo. La Galleria veniva definitivamente inaugurata l'anno successivo.
Su una cosa, però, Cazzaniga, si sbagliò: non previde due guerre mondiali, che tanto abbondano invece nelle profezie di Nostradamus. Dai suoi tempi al 1970, quando la sua cronologia si ferma, il nostro giornalista calcolò ottant'anni ininterrotti di pace, portatrici di benessere e prosperità. Come non riuscì a calcolare esattamente, e questo è più comprensibile, il reale andamento demografico della città che, secondo le sue stime, nel 1971 avrebbe toccato le sessantamila unità. Sbagliò, ma non di molto: una decina di migliaia di anime, o poco più.



venerdì 7 marzo 2014

La vera storia della demolizione di San Domenico

Il convento di San Domenico
Padre Marcellino da Agnadello, al secolo Vincenzo Moroni, è stato il primo sacerdote cremonese ad aver esercitato, in modo pressochè esclusivo, l’attività di giornalista, in qualità di direttore del primo periodico religioso cremonese “La Buona Famiglia”, antesignano dell’attuale settimanale “La Vita Cattolica”, ed uno dei primi giornali cattolici della Lombardia. Ed è stato anche il primo giornalista ad averci rimesso il posto per aver esercitato fino in fondo il diritto di cronaca. Pubblicato tra il 1868 ed il 1880 “La Buona Famiglia”, fortemente voluto dal vescovo Antonio Novasconi, diventa con gli anni la voce dei cattolici moderati e del clero conciliatorista in una provincia, come quella di Cremona, dove particolarmente forte è la componente radicale, massonica e anticlericale ereditata dal Risorgimento.
Nel primo anno della sua direzione padre Marcellino si trova ad affrontare la spinosa questione della demolizione di San Domenico. E si accorge subito di come sia difficile passare dalle letture d’intrattenimento spirituale all’esercizio del diritto di cronaca. Nell’aprile del 1869 Il direttore si vede costretto a rinunciare a una rubrica inaugurata solo quattro numeri prima, “L’Osservatore della Provvidenza”, dove, fingendo conversazioni serali tra amici, si affrontavano temi di attualità cittadina.
E’ con ogni probabilità uno dei primi esempi di censura alla libertà d’informazione che padre Marcellino, pur obbedendo, denuncia sulle stesse pagine della rivista di cui è direttore con estrema dignità e consapevolezza del proprio ruolo di giornalista: “La Cronaca s’era mostrata, incominciava appena: né messo ancora innanzi il capo, ma appena il piè, per tentare il terreno. Veniva innanzi, un po’ seria, nella sua ingenuità, a seconda dei momenti; ma neppure ancor aveva dato la sua Prefazione per dichiararsi qual’era, una quasi fotografa d’uomini, di parlari e di avvenimenti: scritta da uno che guarda le cose persuaso assai della Provvidenza di Dio nel minuto governo e nel succedersi di tutte le cose. Ora la cronaca è condannata in parte al silenzio? Prenderemo di lei quello che ci si lascia e dove ella poteva contare come in più facili acque; e sempre devoti Osservatori della Provvidenza quali ci professiamo, siano o no i contemporanei per tollerarci, verremo innanzi nelle svariate e native e forme che mano mano daranno alle cose le circostanze”.
A un anno esatto di vita del giornale padre Marcellino rassegna le proprie dimissioni in seguito alle polemiche seguite alla decisione di demolire l’antico tempio dei Domenicani, con la denuncia del giornale e del suo direttore da parte della massoneria liberale cremonese.
Ma padre Marcellino è anche in difficoltà di fronte all’incalzare degli eventi e indeciso sulla linea editoriale che avrebbe dovuto assumere il giornale, stretto fra i propositi originari di farne un periodico di letture popolari e la necessità, probabilmente avvertita dagli stessi ambienti curiali, di una più marcata contrapposizione politica. Il suo canto del cigno è proprio la cronaca esatta della demolizione, ricostruita sulla base delle testimonianze dirette e dei verbali della commissione mista del genio civile e del genio militare. Un documento eccezionale di cronaca giornalistica.
Scriviamo in luglio questa memoria – scrive padre Marcellino nel numero del 15 agosto 1869 ‐ e già dal principio del mese, giorni di altissima e lungamente ricordabile vergogna ai Cremonesi in faccia a quanti capitarono visitatori della città, e di profondo e non sanabile cordoglio per tutti i buoni, la barbara demolizione scende sul maestoso tempio e sulla torre colossale e severa, murata sì forte a disdidare tempi e congiungere tra loro lontanissimi secoli e lontanissime generazioni. Tetro avvenimento!”
Tutto ha inizio la notte del 13 febbraio 1862 quando i soldati ospiti della caserma sentono scricchiolare i muri della chiesa. Il 24 la chiesa viene chiusa ed il 26 avviene il sopralluogo della commissione mista che rileva i segni di una rovina imminente, al punto da chiudere parte della caserma facendo ritirare i soldati nel chiostro più interno con uscita sul vicolo Cantoncino. Aggiunge malignamente padre Marcellino: “Il Bortolo Soresini, già custode della chiesa, mi raccontò più volte la cosa. Egli mi disse che la chiesa dopo aver servito di magazzino ai Francesi nel ’59, veniva riufficiata dopo la loro partenza, e vi era stata la Visita Pastorale nel Marzo 59, né alcuno segnò mai che la Chiesa fosse in pericolo. Incominciò il Capomastro Conti, a far qualche romore, in occasione che gli venivano affidate le riparazioni al tetto della crocera e del coro. Se da lui sia saltata al Corriere la cosa, o se vi si tramezzi il gran dimenarsi che fe’ l’ingegnere del Genio Civile, Carlo Porro, passato presto di vita, e molto immaturamente, e l’inconsideratezza d’uno altro che s’era messo ad odiare la maestosa casa di Dio, perché gli stringeva la strada ed egli vagheggiava il guadagno alle finestre di casa sua della vista d’una piazza, è problema da sciogliere”.
Un gruppo di operai 
Prosegue padre Marcellino: “Al 12 gennajo 1863 una controvisita della Commissione composta d’un Architetto e due Ingegneri, mandata dalla Fabbriceria della Cattedrale, constatava invece, con suo Rapporto 5 Febbrajo, i limiti ai quali estendevasi il vero bisogno di riparazioni, e chiariva le menzogne dell’altra. Perciò, e con lentezza da meravigliare in chi non sia nemico delle divine cose, si incominciava a consultare dei mezzi: ai 15 novembre Monsignor Vescovo domandava al Ministero delle Finanze un lasso di sei mesi per raccogliere”.
In Aprile 1864 il Ministero interrogò il Vescovo che esponesse oramai i mezzi disponibili per la riparazione: il Prelato rispose che dava quindicimila lire del proprio. Quasi contemporaneamente la Fabbriceria insinuata da Chi non sappiamo, scriveva al Ministero d’essere pronta ad assumere i restauri, purchè il Ministero volesse dichiarare emancipata per l’avvenire la chiesa di S. Domenico da servitù in caso di guerra. Ai 12 Maggio venne la risposta, e cioè un’altra Commissione mista di civile e militare, ad una nuova visita, per riconfermare le asserzioni della prima, esagerare l’imminenza del pericolo sino a far credere che la facciata del tempio stava per cadere sulla piazza; e addì 5 giugno 1864 un Decreto della Direzione Generale del Demanio ordina la demolizione, incaricando l’ufficio del Genio Civile di Cremona per la Perizia e suo capitolato, e dà facoltà al R. Prefetto di far eseguire la demolizione anche subito, in caso di vero imminente pericolo. In 20 giorni l’ingegnere del Genio Civile signor Carlo Porro, che poi morì, eseguì la perizia. Allora si vide nei buoni un po’ di fremito. Ma chi s’è mosso davvero? Spontaneo un uomo fuori di carica, un illustre Ecclesiastico; e andava a Torino per isventare il Decreto. Fece parlare la verità agli orecchi del Direttore Generale del Demanio, Commendatore Sacchi, poi gliela parlava egli stesso. Il Direttore Generale promise ritirare il Decreto, sopra voto autorevole che gli venisse presentato di non esistente pericolo. L’Ecclesiastico propose il voto della Consulta Archeologica di Milano, e piacque”.
La cronaca di Padre Marcellino prosegue con il racconto del sopralluogo effettuato dalla Commissione archeologica, contraria all’abbattimento dell’edificio sacro: “Quindi ai 20 di giugno, l’Ecclesiastico portò a Milano alla Presidenza della Consulta Archeologica la necessaria istanza, firmata da ragguardevoli persone, perché la Presidenza ottenesse dal Mini‐stero autorizzazione alla visita; quattro giorni dopo, colla domanda della Consulta, rivedeva Torino; il 28 e 29 Giugno, la Commissione della Consulta, composta da due architetti e due archeologi, eseguiva in S. Domenico la visita. Il suo rapporto presentato al Ministero con data 5 luglio 1864, lodava la maestà e la bellezza dell’edificio, ne raccomandava la conservazione, smentiva il vociferato pericolo di rovina, dichiarava la riparazione, quand’anche si fosse verificata opportuna la normale, limitarsi ad un pilone della crocera, e non difficile da eseguire. Del resto, mentre non taceva le sopraggiunte del tempo e i veri bisogni, francamente asseriva destituito di ragione, anzi contrario al decoro nazionale, alla civiltà crescente ed alla savia economia il proposito dell’atterramento”.
Accanto alla perizia della Consulta Archeologica viene presentata una controperizia da parte della commissione composta da due Ispettori del Genio addetti al Ministero, l’Ingegnere signor Oberti e un certo Falconieri che accerti le prove dell’incombente rovina. Il giornale “la Buona Famiglia” riporta integralmente il rapporto della Commissione della Consulta archeologica, che conclude: “Da più parti occorrono certamente sollecite riparazioni, come ai tetti delle navate del piè di croce ed al pilone in angolo della crociera della navata maggiore, le fenditure del quale non potrebbesi provare essere effetto di un recente squilibrio del soprapposto peso, stantechè gli archi di corrispondenza non manifestano correlative lacerazioni, siccome lo attesta l’intonaco non screpolato negli intradossi dei due archi succennati. Inoltre dallo stato di fatto del pilone e delle screpolature in esso esistenti non si può dedurre con certezza che la fenditura penetri nel nucleo della costruzione, e qualora la rottura fosse limitata al rivestimento, la riparazione sarebbe di lieve momento. “Ma dato pure che questo fonda‐ mentale sostegno della crociera richiedesse una riparazione normale, cionullameno presenterebbe pur sempre una difficoltà costruttiva di comune contingenza, e quindi non potrebbe a buon senso essere bastante ragione per atterrare un monumento grandioso, un vasto locale, del quale ben presto si rimpiangerebbe la demolizione”.
La controperizia presentata dalla commissione del Genio arriva invece a conclusione opposte, anche se sulla base di elementi abbastanza discutibili. Le prove erano 17 ostie di 32 che s’erano applicate sulle screpolature del pilone, le quali essiccando nel corso di otto giorni si divisero sulla screpolatura: le altre 15 tenevano fermo ancora e bastavano contro l’imminente rovina”.
Padre Marcellino continua così il suo racconto: “Contro la impudenza dello ingegnere così e corbellarsi de’ proprii cittadini fu pubblicato il 15 luglio uno scritto intitolato: ‘La chiesa di San Domenico e il Corriere Cremonese’, dove si rimproverava urbanamente al Giornalista l’abuso della stampa, e si faceva conoscere ai cittadini lo stato vero delle cose secondo il giudizio spassionato della Commissione Milanese. Erano parole gittate su un foglio di carta. I buoni Cremonesi lessero, sorrisero, lasciarono fare, confidenti, al loro solito, che basti a sé stessa la verità nelle condizioni impersonali contro ogni insolenza. Ond’è che apparve una volta di più nella città nostra potersi le gaglioffaggini; né mentire il vecchio proverbio che invita a Cremona chi vuol misfare a talento. “Dopo la data 5 luglio della Relazione al Ministero incominciò una commedia di sedute alla Direzione Generale del Demanio in confronto del sullodato Ecclesiastico per concertare i modi della ammessa riparazione della chiesa senza l’intervento del Genio Civile di Cremona apertamente avverso del conservare. Credè l’Ecclesiastico più ad altrui che a se stesso quando, per chiusa delle sedute, gli dissero colà: essersi deciso di affidare alla Consulta Milanese la direzione dei lavori ed il collaudo, e che l’indomani partivano le lettere ai tre Uffici, la Consulta, la R. Prefettura e il Genio Civile. E l’indomani Egli, tornato, s’affrettava di prevenire annunziando quelle lettere a Cremona. Ma indarno aspettatele, rivolò a Torino e là si agitò ancora dal 17 al 30, nulla risparmiando né d’opere né di lamenti. Anche il Vescovo in quel tempo si agitava per Torino, itovi a celebrare la santa Messa l’anniversario della morte di Re Carlo Alberto: fece presentare dal proprio Segretario una lettera al Ministro delle Finanze, domandando di poter eseguire a proprie spese le riparazioni. Ebbe dal Ministro un reciso No; del qual no i motivi indegni conosce e narrerà forse un Cavaliere pensionato nostro. Il Conte Guido Borromeo Segretario generale del Ministero potrà confutarli esposti che siano. Così dunque restava condannato ad essere raso da terra il maestoso tempio, e d’allora nessuno più s’arrischiò moversi d’un dito, sì svilita al bene è tutta quanta la generazione e disformi dalle venerate immagini de’ maggiori sì enormemente apparvero i reggenti succeduti”.