sabato 28 gennaio 2017

La prima bettolina

La motonave Cisterna 1 alla banchina della raffineria Italia

Il fischio prolungato della sirena ruppe quella mattina invernale il silenzio ovattato del fiume. Erano da poco passate le 11 di quel 25 febbraio di 60 anni fa e quell'urlo liberatorio lungo tre minuti faceva piazza pulita del silenzio durato per interminabili quarant'anni. Otto lustri in cui l'ingegnere Pietro Bortini aveva cullato il sogno di vedere solcare le placide acque del Po finalmente da una nave, una nave vera che frangesse i flutti con la forza della sua prua. Quarant'anni di sogni e di battaglie, di discussioni contro tutto e contro tutti fedele alla sua idea che la navigazione interna avrebbe rappresentato il futuro dei trasporti e non solo la generosa utopia di un inguaribile sognatore. Quella petroliera che trasportava, pigra e maestosa, 720 tonnellate di greggio, lunga 62 metri e larga 8, e che ora attraccava alla sponda quella mattina invernale del 1957, lo ripagava di tanti anni di amarezza e delusioni spesi nel progettare, nel pubblicare su riviste specializzate la sua ferma convinzione nella navigabilità del grande fiume. Nel silenzio dello Stato, solo l'ingegnere Armando Moschetti, realizzatore del più grande complesso industriale cremonese di allora, la “raffineria Italia” dei fratelli Alberto e Mario Camangi, lo aveva sostenuto nell'idea. D'altronde, quelle di Bortini erano le stesse premesse a cui aveva attinto Moschetti qualche anno prima nel porre la prima pietra della raffineria in riva al fiume, dove avrebbe dovuto nascere il canale navigabile che avrebbe unito Locarno a Venezia attraverso Milano e Cremona e nei pressi del porto fluviale, che avrebbe dovuto dare nuovo impulso allo sviluppo della città. Ma le parole non bastavano, bisognava convincere anche i più scettici con un esperimento che avrebbe troncato qualsiasi altra discussione. Ed ecco allora Armando Moschetti gettare in guanto della sfida: far partire da Marghera una petroliera non da seicento, ma addirittura da oltre settecento tonnellate, capace di trasportare tanto greggio quanto quello di quaranta autocisterne con rimorchio, per poi trarre da questo viaggio le conseguenze. Tre giorni prima di quella fatidica mattina la “Cisterna 1” era partita da Marghera risalendo il tratto più conosciuto del fiume fino a Mantova, già percorso allora da natanti di ogni stazza, per imboccare poi il braccio più inesplorato del fiume a monte della città virgiliana. Tutto era filato liscio e qualche minuto prima delle 11 la bettolina poteva passare prima sotto il ponte in ferro e poi sotto il metanodotto, iniziando le complesse operazioni per l'attracco, preceduti dai rituali tre fischi di sirena. A riva attendevano il Prefetto, le autorità e una gran folla di curiosi. A far gli onori di casa l'ingegnere Moschetti che forniva spiegazioni sul funzionamento delle lunghe condutture, del radar, e dei svari servizi. Poi i tubi dell'oleodotto di terra vennero agganciati a quelli della nave e dalla pancia della “Cisterna1” iniziò a sgorgare, diretto alla raffineria, il primo petrolio trasportato lungo il fiume.
A bordo di quella prima nave vi era un passeggero d'eccezione, il futuro direttore del quotidiano “La Provincia” Fiorino Soldi, allora ancora solo un giornalista, fervente sostenitore della validità della navigazione interna, che volle raccontare l'emozione di quel primo, e per molti sapetti pionieristico, viaggio sul Po, con toni appassionati.
Bortini e Moschetti

Ecco il reportage di Fiorino Soldi.
“A Polesine il Po forma una grande ansa: pare quasi un braccio di mare, rinserrato a malapena tra le rive che quasi scompaiono all'orizzonte, tutto frastagliato di boschi di pioppi turriti. Al pontile del traghetto stamattina alle 8, c'era un po' di gente gesticolante, scesa di corsa dall'argine verso l'ampio corso del fiume. Più in disparte, isolati ed in silenzio, alcuni pescatori, i rudi e tipici pescatori padani, fissi sulle acque lontane come se vedessero per la prima volta un miraggio; il miraggio era laggiù, in mezzo al Po: un gran pennacchio di fumo, come una enorme bandiera nera spiegata nel cielo, attaccata ad una colossale asta d'acciaio, la nave, la poderosa navecisterna, primo grosso natante in navigazione diretta da Venezia a Cremona.
Issato a bordo di un motoscafo da trasporto, un uomo guardava quello spettacolo con due occhi lucidi di commozione: era l'industriale Armando Moschetti, colui che la storia indicherà come l'audace realizzatore di un sogno da tanti decenni vagheggiato: la ripresa della regolare navigazione sul Po. Era un'ora storica dunque questa, contrassegnata col nome di 'Cisterna 1': una nave di piccolo tonnellaggio, simile ad una portaerei in miniatura,rosso il ponte e bianco lo scafo, comandata da una valoroso capitano di mare che dopo tante traversate oceaniche era stato improvvisamente chiamato a dirigere il natante da Venezia a Cremona. Eccolo qui nella saletta da pranzo sottocoperta, il comandante Giovanni Massarin. Alto, tarchiato, la faccia rubiconda ed i gesti scattanti che sembrano dare un tono ancor più deciso allo scarno linguaggio. «Cosa ho detto quando mi hanno ordinato di iniziare il primo viaggio con una motocisterna sino a Cremona? Niente. E che si deve dire? Forse che il Po non è una gran via d'acqua? Certo che il problema si è presentato difficile per il semplice fatto che mai nessuno prima d'ora, con un simile mezzo, ha tentato la avventura. E proprio di avventura si tratta». E seguendo, oltre il vetro dell'oblò il corso del fiume: «Ecco, mi dice, vede? Andiamo da una curva all'altra e ci sono ben 45 curve dalla foce del Mincio, a Mantova, sino a Cremona. E' l'unico dato segnaletico della nostra 'carta nautica'. Di altro non c'è segnato nulla, se non quei cartelli indicatori che, tra una curva e l'altra, avvertono del mutamento del corso della corrente. Un fiume che serpeggia è il Po, selvaggio ed ancora allo stato primitivo, o meglio nello stato in cui è stato abbandonato da secoli perchè un tempo il Po era navigabile».
La motocisterna "numero 1"
La grande avventura era cominciata alle 22 di venerdì scorso. La 'Società Navicisterne' di La Spezia, con l'ardimentoso fervore che la contraddistingue, aveva accettato la proposta della società 'Camangi' di trasportare il petrolio grezzo dal suo deposito costiero Ligabue di Venezia-Marghera, sino alla grande centrale della 'Raffineria Italia' di Cremona. Il progetto, dovuto allo spirito d'iniziativa di Armando Moschetti, doveva essere realizzato quasi nel segreto, come la pratica dimostrazione che le teorie di tanti tecnici trovavano un fondamento nella realtà e che era ormai tempo di passare dalle parole ai fatti. A tale scopo tre motocisterne sono state caricate a Venezia per giungere a Cremona.
La 'numero uno' (che precede di un giorno il rimanente convoglio) è lunga 62 metri, larga 8, alta 2,30: ha una portata di 720 tonnellate e dieci cisterne, sistemate da una parte e dall'altra dello scafo. L'unica sovrastruttura, che emerge oltre ai boccaporti ed agli impianti di pompaggio, è la cabina di comando davanti alla quale è sistemato un radar. Tre grandi proiettori girevoli servono per l'orientamento durante l'oscurità. La velocità della nave è di circa otto chilometri orari; la potenza dei due motori di 168 hp effettivi. Questa nave ha già coperto in viaggi del genere circa 150 mila chilometri, pari ad ottantamila miglia marine; mai però prima d'ora un natante di simili dimensioni aveva superato le foci del Mincio.
Il percorso fluviale Venezia-Cremona è di 298 km. (quello stradale di via Mantova-Legnago-Padova è di 215 km. E quello ferroviario di via Mantoa di 208 km.). Agli effetti della navigazione, gli ultimi 50 chilometri erano considerati i più difficili in quanto non si conoscevano esattamente le uniformità degli alvei di corrente e le possibilità di manovra dei grossi natanti. In ciò stava l'avventura odierna; ma tutto l'equipaggio della 'Cisterna 1' sentiva di vivere un'ora storica e l'ha vissuta così, semplicemente, come fosse una cosa normale. Nessun stato d'allarme a bordo e nessuna agitazione: gli uomini erano vigilanti, ma calmi come se navigassero sul mare.
Tutto l'equipaggio si sente così, dal motorista Sante Mantovani al primo pilota Fulvio Negrini, al secondo pilota Enrico Cavicchi, ai marinai Gennaro Turati, Anselmo Vicentini, Luciano Cavallari; ed anche il cuoco Ernesto Moretti la pensa così. Stamattina questi uomini si sentono affratellati come non mai, sereni, calmi, lieti di vedere, nelle ore più impensate della navigazione, il direttore della loro Società che balza da un argine all'altro per dare un segno di incoraggiamento. Nè vanno dimenticati i due uomini che, a bordo di un motoscafo-rimorchiatore precedono la nave con gli scandagliatori a mano, controllo effettuato dal Genio Civile per collaborare alla riuscita dell'impresa.
Dalla tolda della nave il paesaggio è incantevole, così evanescente che pare dipinto su un vetro. Gli isolotti sono disseminati alla deriva e sono grandi banchi di sabbia adatti alla sosta delle anitre selvatiche. Le boscaglie si allineano per chilometri e chilometri lungo le rive e troneggiano imponenti su ampi squarci di campagna grigia. Qualche gruppo di uccelli neri trasvola attorno alla nave: sono i 'gabbiani' del Po, gli abitatori di questa selvaggia zona dove non sembra che la gente possa vivere. Squallida e spettrale desolazione padana, lungo un fiume che un tempo fu pur sonante di cimenti armati e gloriosa strada di progresso commerciale!
Questa nave, col suo ritmico e sordo rumore, spacca un silenzio secolare; avanza come una prora che taglia i misteri dei secoli, trascinandosi dietro ricordi di storia. Dal tempo dei romani quando Cremona fu il centro del più fortificato municipio antigallico, all'epoca bizantina quando a Cremona iniziato il grande commercio del sale con Comacchio e Ravenna; dal tempo dei Comuni quando Cremona fu il maggior porto fluviale per gli scambi dalla Francia al Medio Oriente, sino all'epoca viscontea e sforzesca quando sul fiume s combatterono accanite battaglie navali con le galee della Serenissima. Imperatori e papi, re e diplomatici, santi e poeti, quante figure leggendarie passarono da queste rive oggi ancora uguali, tar questo silenzioso mondo che pare sia rimasto fermo alle antichissime epoche delle palafitte.
L'accoglienza dei cremonesi sull'argine
Tutto questo simboleggia stamattina la 'Cisterna 1', la prima nave a motore che solca il Po dal mare a Cremona, portando il frutto ultimo della civiltà, il petrolio, così come un tempo i mercanti cremonesi importavano dal Levante spezie e drappi di damasco. Sventola da prua a poppa il gran pavese: tutti i membri per formare come un grande arcobaleno, una simbolica bandiera del progresso che varca i confini creati dagli uomini per abbracciare tutta l'umanità come fosse uan sola famiglia.
Ecco, laggiù, il Torrazzo, la grande mole che emerge dal fondo nebbioso dell'orizzonte. Gli uomini della 'Cisterma 1', escono in coperta e segnano col dito la grande torre come fosse l'enorme faro di un porto sconosciuto. Fischia la sirena ed il suono poderoso frantuma il silenzio e con esso i ricordi e le nostalgie. Laggiù sventola una grande bandiera tricolore: oltre il ponte di Cremona, al primo porticciolo della nuova storia della navigazione fluviale padana. Gente accorre sugli argini, dalla via del Sale alla banchina della gru dei ghiaiaioli; alcune macchine scendono a precipizio verso gli spiazzi delle rive. Gente si muove dappertutto, arrivando; poi tutti stanno immobili, fissi su questo grande scafo che per la prima volta si accinge a passare sotto il grande ponte in ferro.
Anche lassù il traffico è sospeso; si vedono le automobili fermarsi e parecchia gente corre alle ringhiere del viadotto pedonale. Il comandante Giovanni Massarin dirige l'ultima fatica: i piloni del ponte troncano la corrente ed il fondale maggiore è quasi introvabile. Si procede lentissimamente, facendo girare la nave secondo le segnalazioni ritmiche degli scandagliatori. Si procede, adagio, ma si procede. La gente che ormai nereggia sulla riva guarda attonita come vedesse qualcosa giunto da un altro mondo, chissà, una specie di strano 'disco volante' acquatico.
Quando la nave, finalmente, esce dall'intricato labirinto dei fondali di corrente e passa il ponte, tutti i marinai corrono verso l'ancora ed i cavi di attracco. Laggiù c'è una grande bandiera che aspetta; e là termina il gran viaggio: un porticciolo modesto, costruzione da pionieri della civiltà. Ma l'opera è compiuta. Sono le ore 11,30 del 25 febbraio 1957; sotto il gran tricolore, le autorità applaudono alla nave che giunge. Nessuno è sfinito sulla tolda; tutti i marinai, comandante in testa, completano le operazioni di sbarco. Così, come se avessero compiuto un'impresa normale e semplice; serenamente, proprio come si compete ai discendenti di quella stirpe di navigatori che han portato la civiltà lungo tutti i mari, in tutte le terre e lungo tutti i secoli”.

Ad accogliere l'arrivo della prima bettolina il prefetto Dal Cortivo, il commissario straordinario Salazar, l'ingegnere capo del Genio Civile Giunta, l'Intendente di Finanza Acacia, i dirigenti della Camera di Commercio e delle associazioni, ma sopratutto, vicino all'assessore provinciale ai lavori pubblici Scaglia, l'ingegnere Pietro Bortini, che per tanti anni aveva diretto l'Ufficio tecnico provinciale, il più fervido sostenitore della navigabilità del Po, che vedeva il suo sogno coronato dal successo.
Il giorno successivo giunsero a Cremona anche le altre due navi cisterna, accompagnate ancora da una folla di persone assiepate sugli argini per assistere all'arrivo. Tuttavia non mancarono i problemi perchè le due cisterne furono costrette ad arrestarsi a pochi metri dal ponte a causa di fondali troppo bassi. In particolare dal secondo battello, che aveva corso il rischio di insabbiarsi, fu travasato parte del greggio, con un 'operazione che richiese alcune ore, che consentì all'imbarcazione di attraccare al bacino della raffineria Italia solo verso il tardo pomeriggio.

martedì 24 gennaio 2017

La lista di Naples

Naples Ferraresi

Anche Cremona ha il suo Oskar Schindler, l’industriale tedesco famoso per avere salvato durante la Seconda Guerra mondiale 1200 ebrei dalla Shoah. Si chiamava Naples Ferraresi, 85 anni nel 2008, quando lo abbiamo conosciuto ed ha deciso di raccontarci la sua storia. Dopo una vita che, già ad iniziare dallo strano nome, è tutta un romanzo, dal 2004 ha abitato a Gadesco Pieve Delmona. Dal settembre 1943 ai giorni della Liberazione ha salvato dai campi di concentramento tedeschi una cinquantina di suoi concittadini e ad altrettanti, rastrellati dai fascisti, ha evitato il carcere. Dopo tanti anni di silenzio, vissuto tra i suoi ricordi, sollecitato dagli amici Curzio Strina e Cornelio Bertazzoli, ha deciso di raccontare quei mesi straordinari vissuti al Comando tedesco di palazzo Trecchi, fatti di generosità e di paure, di incoscienza giovanile e di umana solidarietà. Una serie di episodi e di vicende che non hanno mai trovato spazio nei libri di storia, ma che aprono un vivo spiraglio di luce sugli anni della Repubblica di Salò, visti dalla parte di chi ci è stato, ed ha così combattuto la sua personalissima Resistenza. La sua straordinaria conoscenza del tedesco, una lingua che ancor oggi usa con scioltezza, intercalandola senza soluzione di continuità a frasi in autentico dialetto cremonese e ad un perfetto italiano, gli ha consentito in quegli anni di diventare il braccio tedesco del maggiore Grosse, il comandante della guarnigione cremonese, ed in questo modo iniziare quella lunga catena di solidarietà che gli ha consentito di salvare centinaia di vite umane dalla morte e dalla miseria. Eppure di quella sua straordinaria attività Naples non ne ha voluto mai parlare pubblicamente. Si è lasciato scappare qualcosa solo con gli amici più cari, che hanno insistito perchè la raccontasse anche a noi. Una storia talmente incredibile che, lo confessiamo, ci ha lasciato all’inizio abbastanza scettici. Ma quando Naples, con viva lucidità, ha iniziato a raccontare fatti, vicende, a tratteggiare il ritratto dei suoi collaboratori, a citare date ed episodi facilmente riscontrabili ci siamo lasciati trascinare e coinvolgere dal suo racconto fino a decidere di raccontarvelo a nostra volta.
Iniziamo dalla conclusione, però. Da quella mattina dopo il 25 aprile quando l’avvocato Salvalaggio, membro del Cln, incrociando Naples sulle scale mentre si sta allontanando dalla ex sede del comando tedesco ormai abbandonato, gli dice semplicemente: "Tu non devi avere paura, stai tranquillo e se hai bisogno di aiuto rivolgiti a noi. La gente chiacchiera e potresti avere problemi, ma noi ti aiuteremo". Quell’aiuto Naples non ha mai avuto bisogno di chiederlo. A dargli una mano, nei mesi dopo la liberazione, fatti di speranze e della dura realtà di sopravvivere ad ogni giorno, è stato uno dei suoi beneficiati: un commerciante milanese di nome Venier a cui Naples, approfittando dei suoi contatti, aveva fatto dissequestrare un capannone consentendogli di continuare a lavorare. Venier aveva una bottega di semi e concimi in via Solferino, ma anche buoni contatti milanesi. Una volta saputo che il nostro era senza lavoro non ci mise molto con una telefonata a trovargli un impiego al Credito Italiano di piazza Cordusio. Altri non hanno avuto per lui neppure una parola di ringraziamento: "Salvare tanta gente non mi è costato nulla, ma mi avrebbe fatto piacere se qualcuno mi avesse almeno ringraziato. E’ stata la gente semplice del Po, quella che viveva di caccia e pesca, a ricordarsi di me e portarmi, che so, un paio di fagiani consegnati a mia madre".
Roberto Farinacci

La storia cremonese di Naples Ferraresi inizia la mattina del 18 settembre 1943, quando arriva alle porte della città a bordo di un carretto con un cappellaccio in testa e viene fermato da due tedeschi, ma bastano poche parole ed ha via libera. "Arrivavo dal Piemonte dove ero rimasto nascosto qualche giorno in un alberghetto di Chivasso. Avevo in tasca molti soldi, mi sono vestito di nuovo e giravo liberamente senza che nessuno mi dicesse qualcosa. Vedevo portare via i ragazzi nei vagoni piombati e cercavo di allungare ad alcuni un grappolo d’uva. A Cremona abitavo in via Massarotti: una mattina vedo appeso un manifesto che invita i cittadini a presentarsi al comando tedesco, per consegnare le armi probabilmente, a palazzo Trecchi. Mentre sto per salire la scalinata vedo sotto il portico una folla di ragazzi ammassati e chiedo il perchè. Mi rispondono che sono quelli che non hanno aderito alla Repubblica di Salò: chi non aderisce viene spedito via in camion o su vagoni ferroviari, a chi aderisce viene rilasciato invece una sorta di lasciapassare. Quando tocca a me incontro un soldato tedesco che mi sembra una brava persona, mi ascolta, sente che parlo correntemente tedesco e corre a chiamare un tenente. Quello mi si avvicina e mi dice: lei resta con noi. Ed io: se mi pagate ci sto. Quanto vuole, mi chiede il tenente, ed io sparo: 1500 lire al mese. Un capitale, ma quello non batte ciglio e dice: fatto. E’ là che, diciamo, è iniziata la mia carriera. Ho solo cercato, nel mio ruolo, di fare del bene a chi potevo. C’era gente che veniva a chiedere la restituzione di un fucile da caccia sequestrato. Auricchio veniva a cercare la benzina, altre ragazze avevano bisogno di un posto dove andare a dormire. Insomma i casi da affrontare erano tanti e grazie alla mia conoscenza del tedesco cercavo di convincere in tutti i modi il comandate del presidio della bontà delle richieste. Il maggiore Grosse, va detto, era comunque una brava persona, e spesso chiudeva un occhio". Ma la richiesta di aiuto si fa ancora più pressante fino a mettere a rischio la stessa incolumità del maggiore e del suo interprete italiano. "Venivano piangendo i familiari dei deportati nei campi di concentramento a chiedermi di aiutarli ed io spiegavo loro che documenti dovevano presentare, veri o falsi che fossero. Serviva una dichiarazione che vi fosse, che so, il padre morente o qualcosa del genere. Loro portavano i documenti e Grosse li firmava mettendo il timbro, anche se la carta presentata era falsa". Ma la vigilia di Natale del 1943 Naples viene chiamato dallo stesso comandante che, in tedesco, gli dice senza mezzi termini: "Ferraresi, adesso basta se no ci mettono al muro tutti e due". In questo modo però, in quei mesi, sono stati salvati 47 cremonesi. Altri venivano mandati alla Tod, i campi di lavoro "casalinghi" per la realizzazione di infrastrutture, un mezzo per preservarli da un’eventuale deportazione. "Un’altra mattina arriva una signora a casa di mia madre perchè i fascisti nel corso di un rastrellamento le avevano portato via il marito con altre 47 o 48 persone, chiedendo se potevo fare qualcosa. Ho telefonato al comando tedesco di San Vittore e ho detto di non accettare i due camion carichi di prigionieri, che in effetti sono stati respinti". L’episodio dimostra quanto i rapporti tra i fascisti nostrani e gli occupanti tedeschi fossero abbastanza tesi. In realtà il ras Roberto Farinacci non voleva proprio saperne del maggiore Grosse e malvolentieri accettava di collaborare con il comando di via Trecchi. "Sapevo che la gente protestava perchè i fascisti mandavano le brigate in montagna a rastrellare i partigiani, anche se poi pensava che fossero i tedeschi ad ordinare queste operazioni. In realtà non era per niente vero, anzi, il comando tedesco era preoccupato per queste iniziative la cui responsabilità ricadeva poi su di loro. Un giorno ho deciso di riferire la cosa al comandante, facendogli presente che se le cose andavano avanti così a rischiare di più sarebbe stato proprio lui. Grosse fece allora chiamare Farinacci: lui non parlava italiano e quello capiva poco il tedesco, per cui il comandante mi passò la telefonata e io feci da interprete tra loro due. Insomma, per farla breve, distorcendo un poco quello che si dicevano sono riuscito in qualche modo a ricomporre la cosa". Naples ancora oggi ha un vivido ricordo di quegli anni ed un giudizio positivo sui tedeschi di palazzo Trecchi. "Non era cattiva gente, i malvagi erano altrove ed anche noi dovevamo guardarci dalle spie. Mi ricordo un altro episodio: un giorno dovevamo portare delle coperte e dei viveri non so dove. Siamo passati col camion da una cascina di San Martino in Beliseto. Mentre attendavamo si è avvicinata al camion una bimbetta con i capelli scarmigliati ed il moccio al naso. L’autista, un tedesco, mi aveva fatto vedere poco prima le foto dei suoi tre figli, per cui, alla vista della bimba non ha avuto dubbi: ha preso una coperta, più grande di lei, e gliela ha data. In breve l’aia si riempì di bambini ed il camion restò senza coperte". Ma, a sua insaputa, Naples aveva anche il ruolo delicatissimo di informatore del Cln. Ogni mattina si trovava dal barbiere con due personaggi che saranno poi fondamentali per la Resistenza: l’architetto Guerrini e l’avvocato Salvalaggio. Come si usa tra clienti si scambiava qualche parola sui fatti del giorno ma, come è facile immaginare, da Naples venivano anche notizie sulla linea Gotica che per la Resistenza erano fondamentali. Per questo quando, non senza sorpresa, Naples incontrò quel suo conoscente sulle scale del palazzo Trecchi con al braccio la fascia del Cln che lo tranquillizzava sul suo futuro, solo allora capì.
Palazzo Trecchi, sede del Comando tedesco

Una vita da romanzo quella di Naples Ferraresi, classe 1923, a iniziare dal nome. Il padre era su un cargo austriaco affondato nel corso della prima guerra mondiale quando, naufrago con altri italiani, venne salvato da una nave inglese chiamata appunto Naples. A sedici anni dipendente in Germania in una gioielleria poi nel 1942, sfiorando per un pelo una condanna come renitente alla leva, soldato a Palermo nel Genio fotoelettrica nei giorni dell’arrivo dei tedeschi. Nessuno parla la loro lingua e le truppe hanno necessità di avere un interprete. Si mette dunque a loro disposizione, godendo, a differenza dei commilitoni, della massima libertà di manovra. Da lì viene trasferito al XII Genio di Torino, dove in una caserma priva di tetto caduto per i bombardamenti, i soldati, tutti meridionali, passano sei giorni alla settimana a letto vestiti con gli scarponi mentre uno a turno cucina e fa la guardia. Poi da Torino a Lione, dove dal capitano Frezza riceve l’ordine di smetter la divisa e vestire in borghese. Il cibo arriva direttamente dall’Italia, si trascorrono le serate al ristorante od in allegra compagnia. La vita è piacevole in Francia, le vettovaglie non mancano, cibo e coperte per tutti mentre i soldati italiani sul fronte greco e russo cadono a migliaia decimati dal freddo, dalla fame e dalle cannonate. Durante un bombardamento si rifugia con la cassaforte della delegazione sotto un tunnel. Potrebbe darsela a gambe levate ed invece giustamente la restituisce. E’ addetto al controllo dell’industria bellica come ufficiale di collegamento e se la passa piuttosto bene, ed ha parecchi soldi in tasca, circa 60.000 lire, un piccolo capitale. Pochi giorni prima dell’8 settembre viene trasferito al comando artiglieria di Mentone, per poi essere aggregato ad una compagnia in Piemonte. L’8 settembre lo coglie in tenda nei pressi di Alessandria ad ascoltare il discorso di Badoglio, "un vero imbecille" lo definisce Naples. Due divisioni tedesche che avevano avuto l’ordine di smantellare il distaccamento sui Pirenei sono già in Italia e compiono un massacro. "Non avevamo ordini e non sapevamo fare nulla. Mi trovo estraneo in una compagnia italiana su un camion che sta fuggendo. Abbiamo un fucile del 1891 e quando si affiancano due tedeschi in sidecar abbiamo paura di sparare per le conseguenze che potrebbero derivarne. Poi dobbiamo attraversare il Po che là è ancora poco più di un torrente. Mi sono buttato in acqua ed ho ricuperato una barca, con cui, insieme ad altri tre o quattro cremonesi ci siamo lasciati trasportare dalla corrente. Due di questi sono andati poi con le SS". E’ dopo questo viaggio avventuroso, tra mitragliamenti ed agguati, che Naples giunge a Cremona, dove inizia la sua nuova vita.






mercoledì 18 gennaio 2017

Il segreto del Battaglione

Francesco Bassano, la Battaglia di Maclodio (1590)

Cà del Secco oggi non esiste più, ma il suo nome è legato ad una delle più cruente ed inutili battaglie dell'epoca viscontea, nota come la “battaglia di Sommo”, combattuta la mattina del 12 luglio 1427 da circa settantamila uomini armati al servizio del Ducato di Milano, della Repubblica di Firenze, della Repubblica di Firenze, del Ducato di Savoia e delle signorie di Mantova e Ferrara. Tra gli storici locali l'episodio d'arme non ha avuto molta eco e l'unico che ne parla è Lodovico Cavitelli nei suoi Annales (1588) che descrive “Casale de Sicis, nunc de Malumbris à civitate Cremonae per miliaria tria distans”, dove si era accampato con le proprie truppe Niccolò Piccinino, alleato di Francesco Sforza. A Sommo si era posizionato invece Francesco Bussone detto il Carmagnola, comandante dell'esercito della lega veneta, che aveva da poco abbandonato il Duca di Milano. Se non fosse stata superata per fama dalla Battaglia di Maclodio avvenuta pochi mesi dopo in ottobre, il terribile scontro combattuto tra Sommo con Porto e Cà del Secco, sarebbe passato alla storia per il gran numero di condottieri che vi parteciparono: le cronache del tempo ricordano Il Conte Giorgio da Crema, Lodovico Michelotti, Lionello da Perugia, Raniere del Frigio, Bianchino da Feltro, Giovanni di Messer Marino, Petrolino dal Verme, Niccolò Fortebraccio, Fornaino da Bibienna, Rinaldo da Provenza, Bartolomeo da Gualdo, Riccio da Viterbo, Bernardo Morosini, Antonello da Siena, Guerriero da Marsciano e molti altri. E' questo il motivo per cui la battaglia di Sommo è stata studiata soprattutto dagli esperti di araldica perchè all’epoca oltre alle bandiere ufficiali, cioè quelle di nazione e del comandante in capo, si inalberavano anche gli stendardi dei capitani o signori. Guerniero Berni, autore nel 1472 del “Chronicon Eugubinum” descrive minuziosamente i nomi di quanti nell'esercito portavano gli stendardi: “Il Conte Carmignola tre Stendardi, il Biscione, Stendardo degli Scaglioni, ed un Stendardo a quartieri; la bandiera di san Marco, un’altra Bandiera della Lega dove era San Marco, il Giglio e la Croce Bianca del Duca di Savoia”. E di seguito aggiunge altri tredici possessori di bandiere: “Il Signor di Mantova,
Il Signor di Faenza, Il Signor Giovanni da Camerino, Lo Stendardo del Marchese di Ferrara, Il magnifico Berardino de i Ubaldini, Niccolò da Tolentini, Pier Gian-Paolo Orsini, Il Signor Orsino Orsini, Il Signor Lorenzo da Codignola, Messer Pietro da Trani, Il Conte Aloisio dal Verme, Taddeo Marchese, Talvino Frolano”. Giovanni Cavalcanti, lo storico fiorentino che più di tutti ci fornisce particolari sulla battaglia nelle sue “Istorie fiorentine” composte in carcere, dove fu rinchiuso per debiti nel 1429, descrivendo l'arrivo dell'esercito milanese nei pressi di Sommo, scrive: “L’aria, pe’ tanti loro gonfaloni, pareva alle viste degli uomini fusse cangiante; conciossia cosa che le tante insegne erano di tanti diversi colori, che l’aria e la terra, con tutte le cose, parevano cangianti”. 
Paolo Uccello, La battaglia di San Romano (1435)
Cavalcanti e il veneziano Giovanni Simonetta (Historie, Venezia 1544) sono i cronisti che indicano con più precisione il luogo della battaglia: il primo come “alla cà de Secca”, il secondo “alla Casa del Secco”. La località Summum è citata anche dal nostro Bartolomeo Platina, noto per essere l'autore del De Honesta Volputate, nelle sue “Historiae Mantuanae”. Il Cavalcanti precisa che il campo degli alleati era situato a Somma odierno Sommo con Porto, frazione del comune di San Daniele Po e che la casa del Secco era più avanti verso Cremona, dove c’era una ampissima e profonda fossa. Il Simonetta dice che il Carmagnola, come era sua abitudine, aveva circondato il campo con dei carri, quasi fossero un muro, dal lato del nemico e non lontano dai carri c’era una fossa molto difficile da passare. Ai bordi di questa si schierarono gli alleati e lì si svolse la parte iniziale dello scontro. Potrebbe essere un'ipotesi suggestiva identificare il luogo dello scontro poco lontano dall'attuale località Battaglione, dove in effetti in passato furono ritrovati frammenti di armi antiche che alcuni attribuirono ad uno scontro avvenuto nel 200 a.C. fra i coloni latini ed i Galli, ma che sicuramente sono di molti secoli posteriori.
Alla battaglia parteciparono circa settantamila uomini, divisi fra i due eserciti, anche se i cronisti che se ne occuparono forniscono cifre spesso molto differenti tra di loro. Il Cavitelli, ad esempio, elenca 42.000 armati per i veneziani e 21.000 per i milanesi, il Platina parla di 37.000 soldati della lega veneta, escludendo i servi. C'erano poi i cavalli, i vivandieri, ed i marinai, in numero oscillante tra i 12 ed i 18 mila per entrambi gli schieramenti per quanto riguardi i primi, tra seimila e diecimila per i secondi ed i terzi. Un dispiegamento di forze impressionante.

L'esperto di araldica Massimo Predonzani alla battaglia di Sommo ha dedicato un corposo saggio pubblicato sul portale villaggiomedievale.com, da cui riprendiamo le notizie sullo svolgimento dello scontro.
I primi a muoversi furono i milanesi, animati dalla presenza dello stesso duca e comandati da Carlo Malatesta signore di Pesaro, da poco nominato capitano generale dal Duca su consiglio di Francesco Sforza. Quasi tutti i cronisti concordano nel dire che l’accampamento dei veneziani e alleati era protetto da una cinta di carri come usava il Carmagnola, il quale però questa volta fece uscire parte delle genti e li fece attestare dietro ad una fossa che si trovava più avanti, verso il nemico. Arrivati sul posto i milanesi rimasero nel dubbio se conveniva passarla oppure no. Secondo il Simonetta, i capitani viscontei Agnolo della Pergola e Guido Torelli, più vecchi ed esperti consigliarono di attendere che fossero i nemici i primi ad attraversare l’ostacolo, ma gli altri condottieri, desiderosi di venire alle mani, si misero a passare, primo tra tutti Francesco Sforza seguito da Cristoforo da Lavello e da Ardizzone da Carrara. Lo storico fiorentino Giovanni Cavalcanti è più preciso, e scrive che il Carmagnola “lungo quel burrato, pose assai gente a contendere che i nemici non passassino,.. e a quel luogo era assai vicino un bosco spinoso e salvatico, il quale in su gli argini di quella strada si stendeva; nel quale otto mila fanti, con balestra, lance ed altre armadure, il franco Carmagnola vi mise”. 
Il primo ad attaccare fu Agnolo della Pergola ma visto che era difeso “colle balestre e con le giuste lance” che colpivano i soldati ordinò che fossero i suoi contadini a rimediare “al guastamento de’ suoi”. Egli infatti oltre la sua compagnia aveva come seguito, come riferisce sempre il Cavalcanti già dal 1426, un infinito numero di villani armati di scuri e di roncigli che usava per farsi aprire la via in mezzo a boschi selvatici o per farsi costruire ponti per attraversare fiumi . Velocemente questi contadini armati di pale, zappe e vanghe furono spinti dai fanti di Angelo sulla sponda del fosso con l’ordine di ricoprirlo. Questi si ritrovarono così con i nemici di fronte che li colpivano con verrettoni e lance e dietro con i soldati alleati che li spronavano percuotendoli alle spalle, non trovando scampo da nessuna parte. “Agnolo faceva torre i morti; e non avendo egli riguardo de’ feriti, ma ciascuno faceva gittare nel fosso; e ricoprire subito di terra. E vi era tal padre che ricopriva il figliuolo; e tal figliuolo che ricopriva il padre; e così il zio il nipote, ed il nipote il zio, e l’un fratello l’altro; e così ogni cosa era crudeltà e omicidio”. Un vero e proprio massacro descritto crudamente dal Cavalcanti che conclude: “La crudeltà d’Agnolo fece tanti villani in quel fosso gittare, che con la riva del fosso tutto il pareggiò; e co’ cavalli sopra a que’ corpi, l’umano posticcio calpestando; passò, e sopra le nostre genti cominciò forte a battagliare”.
Lo scontro tra i due eserciti avvenne in aperta campagna tra la fossa e i carri: Antonello da Milano, capo squadra dei viscontei, con i suoi dall’ala sinistra attaccò i nemici al fianco e senza trovare resistenza entrò negli alloggiamenti della Lega uccidendo in parte gli uomini disarmati messi a guardia dei padiglioni, in parte facendoli prigionieri e mettendo il resto in fuga. Nel frattempo il grosso dei milanesi avevano spinto gli alleati dei veneziani fino ai carri dove il Carmagnola fu gettato da cavallo scatenando subito un’aspra lotta tra i nemici che cercavano di prenderlo e i suoi che lo difendevano. Alla fine i suoi famigli riuscirono a farlo montare su di un altro cavallo perdendo però molti di loro che furono fatti prigionieri.
Quando si sparse la voce che il Carmagnola era stato preso altri soldati milanesi seguendo seguendo lo stesso percorso fatto da Antonello entrarono nel campo dei collegati e si misero a saccheggiare tutto, specialmente gli alloggiamenti del signore di Mantova. Udito questo, il Carmagnola mandò subito truppe in soccorso al campo e i saccheggiatori, che erano senza alcun capo, furono messi in fuga. Dovette ritirarsi anche Antonello da Milano portandosi dietro alcuni prigionieri. Circa 500 milanesi furono fatti prigionieri attorno agli alloggiamenti.
La battaglia durò l'intera giornata innalzando nugoli di polvere al punto che non si distinguevano gli amici dai nemici e si era costretti a riconoscersi a voce. Fu pertanto necessario suonare le trombe a raccolta e ciascuno dei contendenti ritornò ai propri alloggiamenti. Lo stesso Cavalcanti racconta che la giornata era caldissima e che le donne cremonesi facevano la spola portando acqua ai combattenti milanesi, ma soprattutto con il gran caldo si corrompevano velocemente i corpi dei caduti: “e molti uomini dell’una parte e dell’altra vi morivano, e non meno di disagii che di busse. Il fiato del sangue, col puzzo delle tante carogne , fu cagione di molti morti, perocchè i cavalli sbudellati, e le interiora, mescolatamente, degli uomini e delle bestie, pel gran caldo, erano subitamente corrotte”.
Secondo il Cavalcanti, però, l'esito dello scontro non fu determinato dalla polvere ma dagli ottomila fanti che il conte di Carmagnola aveva nascosto nelle boschine vicino alla fossa, che con lance e balestre colpivano i soldati minalesi che non riuscivano a sfondare le linee nemiche. Tutti i cronisti sono concordi nel dire che le perdite furono ingentissime da entrambi le parti, un vero e proprio massacro, che si concluse senza vinti né vincitori. Con questo scontro Cremona fu salva e, lieto di questo, Filippo Maria Visconti ritornò a Milano da dove mandò Ladislao Giunigi figlio del signore di Lucca a Vercelli, per respingere un attacco delle truppe congiunte di Amedeo di Savoia e di Giangiacomo marchese del Monferrato, operazione portata a termine con successo. Il conte di Carmagnola invece, vista la difficoltà di prendere Cremona, si spostò a Casalmaggiore e susseguentemente nel bresciano, sempre seguito dai milanesi e infine a Maclodio, dove otterrà una delle sue più importanti vittorie della sua carriera. Ma è sopratutto ancora il Cavalcanti a porre l'accento sul massacro dei contadini inermi, a punto che anche i fanti fiorentini, stanchi di uccidere gente disarmata, si spostavano lungo la fossa cercando combattenti veri: “Ed alcuno de’ nostri, a cui pietà ne veniva, accennava in un luogo e dava in un altro: dove i nostri vedevano l’arme, percotevano; e dov’erano i panni, riguardavano”. 
Paolo Uccello, la Battaglia di San Romano

Nel 1424 il Duca di Milano  Filippo Maria Visconti, da poco rientrato in possesso di gran parte dei territori appartenuti al padre Gian Galeazzo, aveva esteso le sue mire alla Romagna  scontrandosi con la Repubblica di Firenze, che per difendere i propri interessi nella regione intervenne militarmente contro i milanesi. Però dopo alcuni rovesci militari, i fiorentini si videro costretti a chiedere aiuto a Venezia, la quale si adoperò organizzando una Lega a cui aderirono, oltre le due repubbliche, anche il Ducato di Savoia e le signorie di Mantova e Ferrara. La guerra si spostò nell’Italia settentrionale dove l’esercito della Lega, comandato da Francesco da Bussone detto il Carmagnola, che da poco aveva abbandonato il Duca per mettersi al servizio di Venezia, attaccò la città di Brescia appartenente al Visconti. Dopo un lungo assedio la città venne conquistata assieme a vari territori situati sulla sponda orientale del lago di Garda. Seguirono varie trattative di pace senza esito, alla fine delle quali i milanesi, per mezzo di una flotta lungo il Po, riuscirono ad occupare Torricella nel Parmigiano e poco tempo dopo, ad opera del Piccinino, l’8 maggio 1427 presero Casalmaggiore. A seguito di questi eventi il Carmagnola decise di attaccare i territori bresciani che si estendevano a sud, quindi uscì con l’esercito da Brescia e vi si diresse, mentre la flotta veneziana molestava le località viscontee sul Po. In seguito il condottiero di Venezia partì per andare a Gottolengo dove successe un fatto d’armi nel giorno dell’Ascensione. Questo luogo era presidiato da molte genti del duca capitanate da Guido Torello, Cristoforo da Lavello e Niccolò Gueriero, i quali attaccarono di sorpresa una parte dell’esercito collegato. La giornata era caldissima e secondo alcuni cronisti contribuì alla morte di molti uomini, tra gli altri morirono Messer Nanni degli Strozzi capitano del marchese di Ferrara e Galizio, capitano dei fiorentini. Il Carmagnola visto che Gottolengo come altri luoghi fortificati del Bresciano erano ben guarniti decise di trasferire le operazioni militari nel territorio di Cremona e attraversato l’Oglio prese con le armi o per dedizione molte località del Cremonese, tra le quali Robecco, Castelvisconti, Bordolano, Isola Dovarese, San Giovanni in Croce, Vidiceto e Castelletto. Nel frattempo si erano già uniti ai collegati le forze di Bernardino degli Ubaldini e di Giovanni da Camerino, mentre la flotta veneziana forte di 36 navi, sotto gli ordini di Francesco Bembo da Brescello navigando sul Po arrivò a Casalmaggiore, dove si scontrò il 20 maggio, con quella ducale formata da 30 navi e guidata da Pisano Eustachio. I milanesi ebbero la peggio perdendo 8 legni, dando modo ai veneziani di tentare un attacco con i fanti delle galee, diretto contro Cremona,  sventato da Cristoforo da Lavello comandante milanese della città, il 5 luglio.
Ormai padrone della regione, il Carmagnola si avvicinò fino a tre miglia da Cremona con un esercito divenuto molto numeroso e mise il campo a Sommo. Il Visconti preoccupato di perdere anche Cremona dopo Brescia chiese aiuti militari all’imperatore Sigismondo, poi chiamato a raccolta i milanesi, organizzò un esercito e con esso si recò di persona a Cremona passando per Pizzighettone. L’esercito milanese si accostò presso la città a circa due miglia dai nemici.

mercoledì 11 gennaio 2017

Zafferano, l'oro di Casalmaggiore


Il vero oro giallo cremonese è stato lo zafferano che, fra il XV ed il XVI secolo, diede luogo ad un traffico commerciale paragonabile solo a quello del fustagno. Un prodotto richiestissimo, soprattutto dalla Germania, che veniva contrattato dai mercanti cremonesi alle fiere di Bolzano od anche procurato dagli stessi tedeschi direttamente sul posto, nel maggior centro di produzione locale, Casalmaggiore. Ma non solo i tedeschi erano clienti affezionati. Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento il prodotto veniva messo in vendita anche in Sicilia e Calabria (un po' come vendere gelato al polo Nord), alle fiere di Ginevra e di Lione, a Parigi, Bruges e Londra, fino ad Alessandra d'Egitto dove veniva scambiato con pepe e spezie, a Creta e Corfù. E' proprio Hans Paumgartner il giovane, un mercante di Augusta, che ci informa in un manoscritto di come il doschga (come era conosciuto in Germania lo zafferano) venisse esportato in quantità di 35, 40 quintali all'anno. Il traffico di zafferano è puntualmente descritto in un manuale di mercatura di Bartolomeno Paxi, la Tariffa de pexi e mesure, pubblicato a Venezia nel 1503, che fornisce anche il cambio con la moneta cremonese: “Perfina adesso havemo narrato de molte et diverse mercadantie le quale fano per molti logi et parte del mondo; hora trataremo della mecadantia del zafran perché è molto utile et dimandado in ogni parte. Trataremo anchora per quelli luoghi li quali più bisogna et de quanti luoghi esso zafran se traze. E prima. Se traze da l'Aquila et da Sermona vicina a l'Aquila et è bono et fassene assai. E se traze anchora da Fabrian de la Marcha e del conta' de Fiorenza et questo è quasi il meglior de tuto l'altro zafran. Trazesse anchora de su il contado de Cremona et de alchuni altri loghi de Lombardia et della Puia de terrra de Barri et questo de la Puia è de mancho valor de l'altro. Trazesse zafran de terra de Otrento et de Maiolicha ed etiam de Catalogna zoè de Valenza et d'alchuni altri loghi circostanti. Havemo narrato per quanti luoghi se traze il dito zafran. Sdesso trataremo dove al bisogna et per quali luoghi è necessario essere menado. E prima. Il zafran fa per la fiera de Zanevra et per la fiera de Lione, per Paris, per Vignon, per Bruza de Fiandra, per Anversa et per Londra d'Ingilterra et per tutta Bergogna et per molti altri loghi et terre de Ponente; è necessario ancora il dito zafran per l'Alimagna alta, per tuta l'Ongaria et per la parte de Levante, per lachuni loghi e terre de Dalmatia, per Cicilia et se vende bene in Calabria quando la Puia et terra de Otrento non gli n'ha; per Corfù et per Candia er se vende bene per Alixandra et etiam per Cypri”.
Secondo Giovanni Romani, (Storia di Casalmaggiore, 1828) la produzione di zafferano nel casalasco si sarebbe ridimensionata drasticamente nel 1427: “Vuolsi che sotto quest'epoca i coltivatori del nostro territorio abbandonassero le piantaggioni del zafferano, il quale genere veniva dai veneti, che lo tiravano dal levante, spacciato ad un prezzo assai minore di quello ch'erano soliti i casalaschi di trarre dal proprio; e vuolsi altresì non senza probabilità che si estendesse in allora presso di noi la coltivazione delle viti, destinando per la medesima molte di quelle campagne, che per l'addietro erano impiegate per la piantagione dello zafferano; e ciò pel motivo altresì che i vini casalaschi si smerciavano con molto vantaggio a Venezia, ove i barcaroli conducendoli colle proprie navi, ricaricavanle poscia con derrate del levante commesse da questi o dai vicini negozianti”. In realtà è proprio una lettera da Venezia del 27 febbraio 1426 ad un certo Matteo Lupi, abitante a Casalmaggiore, relativa ad una partita qui acquistata, che ci informa di quanto fosse fiorente il commercio dello zafferano nel XV secolo. Nel 1812 Antonio Barili (Notizie storico-patrie di Casalmaggiore) ricorda che nel comune di Villanova vi erano ancora alcuni campi chiamati “gialdine” dove si coltivava zafferano.
Tavola dei principi alchemici (sec. XIV)
Ancora nel 1477 il commercio dello zafferano era esercitato dai mercanti ebrei, anche se vi era stata un'iniziale opposizione da parte del Comune data dal timore della concorrenza, contraria agli interessi cittadini. Addirittura qualche anno prima, nel 1456, gli ebrei erano stati cacciati dalla cittadina per aver adulterato lo zafferano che vendevano in piazza. In effetti verso la fine del XV secolo la coltivazione dello zafferano era ancora una delle produzioni tipiche del territorio. Riferisce ancora il Romani (Origine e stato corografico di Casalmaggiore e sue ville, 1828): “Difatto in que' tempi rimoti il territorio Casalasco era posto parte a praterie, parte a semine di grani, canape, gualdo e zafferano, che esitavasì ai forastieri come già si disse. Noi abbiamo potuto verificare, coll'ispezione dei libri economici di questo conv. di S. Francesco dall'anno 1480 al 1496 che tali erano in allora i principali prodotti del nostro territorio”.

Dalla Germania veniva anche San Geroldo, curiosa figura di pellegrino e mercante, ucciso misteriosamente nel 1241 fuori porta Mosa, la cui vicenda Giorgio Maggi, chimico con la passione della storia e della liuteria, collega in modo del tutto originale proprio al commercio dello zafferano.
Geroldo da Colonia arriva a Cremona in visita a Rolando (morto nel 1259) essendo comune l’appartenenza alla scuola domenicana. Geroldo, vita ascetica fatta di preghiere, di penitenza, di meditazione sulla Passione di Cristo, flagellandosi, portando il cilicio, e dormendo sulla terra viene a Cremona per preparare l’incontro con il papa Gregorio IX, in attesa che si realizzino i progetti della cattedrale di Colonia e della giusta collocazione dei Magi, santi alchimisti. Il Papa, spesso in aperto contrasto con Federico II, dovrà approvare per l’occasione i testi oggetto di quaestiones (dispute religioso scientifiche), e auctoritates, con la stesura di commenti contenenti spiegazione e l'insegnamento di questi. Il 7 ottobre 1241, fuori porta Mosa presso le acque paludose del Po, il pellegrino proveniente da Colonia viene trovato morto: secondo la tradizione orale, l’uccisione, riportata  con qualche dubbio sulla versione ufficiale, sostiene che sia stato un agguato di ladri che lo volevano derubare. Il misterioso episodio viene associato da  alcuni alle ansie politiche del condottiero cremonese Uberto Palavicino e del vescovo Omobono Madalberti e alle continue dispute tra ghibellini e guelfi nei contrastati rapporti con l’imperatore. L’umile Geroldo, segreto nunzio di pace gradito all’imperatore ed al Papa, si crede avesse il compito di favorire la costruzione di una città fortificata negli Abruzzi, parte integrante del Regno di Sicilia, là dove secondo la tradizione si trovavano i 99 castelli  eretti nel territorio per rifugio e difesa. La città dell’Aquila sarà fondata dagli Svevi nel 1254 ma il territorio conteso tra dagli Angioini di Carlo I, re di Napoli e di Sicilia dal 1246, passò definitivamente a quest’ultimo con la sconfitta di Corradino di Svevia a Tagliacozzo nel 1268.
La figura dell’umile pellegrino alla sua morte diplomaticamente è elevata a “fama sanctitatis” dai cremonesi – scrive Maggi - In città si sostenne che il corpo di Geroldo emanasse un magico profumo, il sole abbia brillato per l’intera notte del crimine, le campane della chiese suonassero da sole e che le sue spoglie, durante le esequie risultassero inamovibili al vescovo ed ai dignitari per straordinaria pesantezza . Il trasporto nella chiesetta bizantina di San Vitale fu possibile solo quando il popolo decise di traslare il suo corpo dalla riva del fiume lontano da dignitari politici e religiosi.  Il riferimento all’aumento di peso del cadavere non è casuale perché lascia trasparire significati di natura magico alchemica associati al personaggio  : la “corruzione” che si accompagna alla morte di importanti elementi vitali porterebbe a aumento di peso secondo la tradizione popolare ma anche secondo Leonardo da Vinci  in Essempli e pruove dell’accrescimento della terra”
Vincenzo Pesenti, S. Geroldo
Dunque un personaggio colto, religioso proveniente da un centro come Colonia culla di scienza teurgica ed alchimistica; ricco, forse commerciante,  perché aggredito da ladri a conoscenza del suo stato; di alto lignaggio se della sua morte si preoccupa il clero e la nobiltà; giunto  a Cremona non per caso e con compiti precisi ed importanti se la sua morte viene assimilata al martirio come recita la scritta sulla sua tomba. Si può sospettare  che  Geroldo durante il suo pellegrinaggio verso  Roma svolgesse dunque anche funzioni di ambasciatore e commerciante soprattutto di prodotti tessili e spezie importanti elementi di scambio nel commercio tra Cremona e la Germania. Si può anche  nutrire sospetto non confermato da alcun documento che questi, colto interprete di arti occulte e vietate affini alla scolastica, fosse stato obbligato al pellegrinaggio: una ipotesi fantasiosa che appare credibile se ci si chiede per quale motivo il suo corpo nel dipinto sia circondato da un biancore  candido forse deterso con l'espiazione della morte dalla croce gialla dei penitenti.
Il gesuita euclideo è ben raccontato da Herman Crombach che sottolinea l’importanza del santo sempre raffigurato con il bordone e il piccolo libro del pellegrino. Forte è il ricordo di Geroldo che nel 1645 i gesuiti di Colonia richiesero una sua santa reliquia. Il giallo cremonese assumerebbe i contorni della metafora se non si sapesse che Cremona era il maggior centro di scambio dello zafferano abruzzese e zafferanone  (cartamo) padano tra nord e sud Europa”.Il commercio differenzia lo zafferano vero e proprio proveniente a Cremona dall’Italia centrale e il cosiddetto falso zafferano o zafferanone conosciuto come cartamo tintorio. Il cartamo, coltivato ancor oggi nel casalasco è una pianta appartenente alla famiglia delle Asteraceae, dai cui  fiori si può estrarre la cartamina e altri flavonoidi, coloranti per cibi spesso aromatici che possono sostituirsi allo zafferano. La piantina ha importanza soprattutto per l'olio ricco di omega 6 e vitamina K.
Una sartoria medievale nel Tacuinum Sanitatis
In cucina la polvere di cartamo può sostituire lo zafferano, ma ha anche un leggero potere coagulante e dunque è usata per migliorare la consistenza di creme e budini. L’olio e il colorante vengono usati nell’industria cosmetica e nella pittura. La medicina medioevale tramanda ricette a base di infuso di cartamo per rinvigorire il fisico e l’attività sessuale, le stesse ricette sono ancora presenti nei protocolli terapeutici della medicina tradizionale cinese (Hong Hua) e nella pratica terapeutica africana. Lo zafferano, usato come conservante per pesce e carne, venne utilizzato anche come principale componente di pillole costosissime contro la peste. Nel XIII sec. curiosamente lo zafferano era usato per tingere sul petto e sulla schiena del condannato al pellegrinaggio giudiziale  una grande croce che lo rendeva riconoscibile. Le mete imposte ai condannati per pratiche occulte erano Canterbury, Santiago de Compostela, Roma e Colonia.
Tutto, nella interpretazione della figura del santo appare verosimile  o discutibile se si associano opportunamente segni e simboli apparentemente disuniti- spiega Maggi - È verosimile immaginare contatti e relazioni tra eruditi. Non va dimenticato che coevo a Geroldo è Facio orafo e taumaturgo veronese che opera a Cremona tra il 1230 e 1259 circa. Pellegrino e “cum bonam manum in signando” istituisce a Cremona l’ordine di Santo Spirito istituito un secolo prima a Montpellier. Un altro personaggio che si incrocia a Geroldo è il già citato frate Rolando che nel 1238 ha la famosa disputa con Teodoro di Antiochia, filosofo di Federico II. Saputo del viaggio del domenicano cremonese alla corte dell’Imperatore, “multi magni”, che apprezzano la filosofia della natura e le conoscenze religiose del frate, assistono alla importante disputa tra Rolando e l’anticristiano arabo Teodoro dotto nelle scienze alchemiche ancor più che in teologia. Simboli della filosofia della natura e dell’Ars Regia si incontrano nell’arca del santo arricchita da festoni di fiori  bianchi e rossi, simbolo di purezza che sembrano comunicare segni della filosofia naturale aristotelica e alchemici tra fisso e volatile, zolfo e mercurio.  E perché non ipotizzare  il presunto legame con il fiore dello zafferano (za faran = splendor solis) in cui suoi pistilli  durante la maturazione passano dal bianco al giallo al rosso come le alchemiche albedo, citrinitans e rubedo, fasi della saggezza studiate da Alberto Magno. Chiamato Doctor Universalis questi trae i suoi spunti alchemico filosofici da Gerardo da Cremona (Gerardus Cremonensis o Girardus Lumbardus Cremonensis c. 1114–1187 traduttore di Avicenna Abu Ali al-Husayn Ibn Sina (980 - 1037) il primo a distillare essenze di fiori e rose. Secondo Geber (ca 760-ca 815). Abu Musa Jabir ibn Hayyan la pietra filosofale necessaria alla trasmutazione dell’oro ha "il colore dello zafferano, è pesante e brillante come frammenti di vetro". “Non è un caso – conclude Maggi - la predilezione di Geroldo per San Giacomo venerato a Compostella e filosofo ermetico tra i più importanti della Chiesa, colui che secondo la leggenda sconfisse Ermete Trimegisto e  ne acquisì i segreti.