mercoledì 11 ottobre 2017

Un grande artista dimenticato, Giovanni Battista Lodi

E' un artista straordinario che Cremona ha ben presto dimenticato, anche se autore di opere conservate oggi al Metropolitan Museum of Arts. Forse perchè gran parte della sua vita si è svolta a Bruxelles e a Lierre, al seguito dei banchieri Affaitati e a Cremona sarebbe ritornato ormai novantenne per realizzare nel 1611, un anno prima della morte, una Madonna con i santi Antonio abate e San Carlo per la chiesa di Sant'Egidio ed Omobono che, secondo Giambattista Zaist, sarebbe l'unica sua opera nota. In realtà Giovanni Battista Lodi fu uno dei più grandi artisti della seconda metà del XVI secolo, autore di disegni per una serie di arazzi realizzati dalla bottega di Willem de Pannemaker nel febbraio del 1552 ed autore lui stesso di alcuni episodi delle Storie di Mosè per Ercole Gonzaga, conservati oggi a Milano nella villa Simonetta, sede della scuola civica di musica “Claudio Abbado”. Di questa sua attività di disegnatore si sono occupati recentemente lo storico dell'arte olandese Bert W. Meijer, direttore dell'Istituto Universitario Olandese di Storia dell'arte di Firenze, e Thomas P. Campbell, esperto di arazzi del MOMA di New York.
Storie di Mercurio e Herse, MOMA, New York
Di questa sua particolare attività non fanno menzione invece gli storici locali. Lo Zaist, ad esempio, si limita a scrivere: “Lodi Giovan Battista, s'egli è vero, lo che scrisse Antonio Campi, fu certamente un'assai virtuoso professore delle nostr'arti, perocché da lui viene annoverato insieme coi solenni dipintori Camillo Boccacino, Giulio Campi suo fratello, e Bernardo Sogliaro, così leggendosi nella istoria di esso. 'A nostri tempi poi, ne quali pare, che la Pittura sia ridotta al colmo della perfezione, sono stati eccellenti, e molto famosi, Camillo Boccacino, Giovambattista Lodi, Giulio mio fratello, ed il poco fa nominato, Bernardo Sogliaro, le cui eccellentissime opere sono tenute in grandissimo pregio'. Per altro, non facendosi menzione che della di lui persona, senza far parola d'alcuno de suoi dipinti, giusta l'assunto del nostro istorico, non so che mi dire di esso, se non che forse abbia dipinto pochissimo, o siansi perdute, od altrove portate le di lui opere. Il sol quadro, che a mia notizia pur anco di lui si serba, si è quello, che trovasi nella chiesa prepositurale mitrata de' SS. Egidio, ed Omobuono, ed è il primo, passatala cupola, nella nave laterale dalla parte dell'Epistola, il quale in suo altare rappresentata la Vergine sopra le nubi, col Bambino in braccio, ed al basso S. Antonio Abate, e l'Arcivescovo S. Carlo. E tal'opera fu da lui fatta l'anno 1611. Parla di esso Antonio Campi sopra mentovato nella sua storia lib. 3, pag. 197”. (Notizie istoriche de' pittori, scultori, ed architetti cremonesi. Cremona, Ricchini 1774, p. 45).
In tutto al Lodi, sia in qualità di progettista che di esecutore di cartoni, sono state ricondotte almeno quattro serie di arazzi fiamminghi tra i più importanti del XVI secolo: il “Fructus belli” una serie di otto pezzi del tessitore di Bruxelles Jehan Baudouyn per Ferrante Gonzaga 1545-47, di cui sopravvivono sei (Musée National de la Renaissance, Château d'Ecouen; Fondazione Edward James, West Dean College, Chichester, Inghilterra; Musei Reali d'Arte e Storia, Bruxelles); La vita di Mosè (Châteaudun Castle, Monuments Historiques, Francia), una serie di dodici pezzi tessuta da Willem Dermoyen (e forse Peter van Oppenem) per Ferrante Gonzaga tra il 1545 e il 1550; i “Puttini” ((collezione Giannino Marzotto, Trissino), un set di sei pezzi intessuto da Willem de Pannemaker per Ferrante Gonzaga tra il 1552 e il 1557 ed infine le “Storie di Mercurio e Herse” di cui esistono una serie di otto pezzi di cui uno completo e due gruppi parziali nel Metropolitan Museum, nel Palazzo del Quirinale e varie collezioni spagnole private, intessuto dai Willem Dermoyen (attivo 1520 a ca. 1548 a Bruxelles), tra il 1545 ed il 1550 e da Willem de Pannemaker verso il 1570.

La visione di Aglauro, MOMA, New York
Poco si sa delle prime fasi della vita e della formazione artistica di Giovanni Battista Lodi, ma dovette nascere probabilmente intorno al 1520 perchè già nel 1540 era consulente della corte imperiale per valutare il valore di quattro quadri del pittore fiammingo Frans Borreman. Sicuramente, qualunque fosse l'attività svolta in quegli anni, Lodi era una figura di un certo peso nel settore dell'industria tessile e nella produzione di arazzi, e nelle Fiandre si svolse gran parte della carriera e della sua fortuna artistica, probabilmente al seguito del banchiere cremonese Gian Carlo Affaitati. Quest'ultimo era stato inviato dallo zio Giovan Francesco a dirigere la nuova filiale di Anversa per il commercio, oltre che della canna da zucchero, delle spezie provenienti dal Portogallo, e proprio sotto la sua direzione, dopo la morte dello zio avvenuta nel 1528, l'azienda raggiunse la sua massima espansione con filiali in tutta Europa. E proprio a Lier, nei pressi di Anversa, nella casa dell'Affaitati, si trasferì nel 1550 anche Giovan Battista Lodi, lasciando la propria abitazione di Bruxelles, dove aveva abitato tra il 1540 ed il 1549 conducendo una bottega con l'apprendista Conrad Schot, in seguito divenuto uno degli aiuti di Antonis Mor van Dashorst.
In una disposizione a Bruxelles per il Procuratore Generale del Brabante nel dicembre 1553, Schot, che aveva ventisei anni, dichiarava di essere stato l'apprendista di un artista italiano chiamato "Johan Baptista", che viveva nel Hoochstrate, per un periodo di circa quattro o cinque anni. Schot deve essere stato con Lodi dal 1544 al 1549, dopo aver lavorato con Anthonis Mor per un anno e mezzo e con Jan Maes per tre anni dopo. Come Mor e il suo allievo Maes specializzato nella ritrattistica, è possibile che anche Schot si sia addestrato nella bottega di Lodi. Lo stesso "Jan Baptista" è stato descritto in un secondo e più lungo documento come "un italiano e un ricco" che ha poi abbandonato la pittura "perché aveva abbastanza da vivere ed era vecchio in anni" e viaggiò a Lier per vivere con il signor Jan Carlo. Questo "Jan Carlo" era Gian Carlo Affaitati.
Secondo quanto sostiene lo storico Jean Denucé (Inventaire des Affaitati, banquiers italiens à Anvers, de l'année 1568, Anversa, De Sikkel, 1934) Lodi avrebbe anche realizzato opere per Gian Carlo, di cui si trova notizia in un inventario dei beni famigliari steso dal cugino Giambattista a favore dei nipoti, dopo il ritiro dagli affari dello stesso Gian Carlo nel 1545. Secondo Gianni Toninelli potrebbe essere attribuito al Lodi un ritratto di Gian Carlo Affaitati ricordato nel 1576 e poi ancora nel 1635 nella collezione della famiglia nobile cremonese Sforzosi, commercianti anch'essi ad Anversa e collezionisti di opere ed arredi fiamminghi, di cui si è persa traccia.

La visione di Aglauro, MOMA, New York
Decisamente più importante, però, il ruolo svolto da Gian Battista Lodi nel settore dell'arazzeria in qualità di valutatore, grazie, con ogni probabilità, al fatto di avere lavorato come pittore e disegnatore di cartoni al servizio di Ferrante Gonzaga, divenuto duca di Milano nell'aprile del 1546 e nel 1557 comandante delle truppe asburgiche in Fiandra, nella preparazione della campagna culminata con la battaglia di San Quintino il 10 agosto, e poi morto a Bruxelles il 16 novembre. Nella capitale del ducato Ferrante commissionò l'ampliamento e il restauro del palazzo ducale, avviò la risistemazione dell'area monumentale del duomo, dotò la città di un ampio circuito di mura bastionate, mentre il suo architetto Domenico Giunti progettò la risistemazione della Gualtiera, villa suburbana acquistata nel 1547, l'attuale villa Simonetta.
Il ruolo di Giovan Battista Lodi è particolarmente significativo nell'esecuzione del famoso ciclo di arazzi del “Fructus belli”. Ferrante Gonzaga era un grande collezionista di arazzi e con ogni probabilità prima di fare il proprio ingresso a Milano il 19 giugno 1546, ne commissionò una serie di otto agli arazzieri di Bruxelles. Che Lodi fosse impegnato in questa attività è confermato in due lettere che l'arazziere Jeahn Baudouyn inviò successivamente a Ferrante. Nella prima, scritta da Bruxelles il 15 giugno 1547, Baudouyn chiedeva ulteriori fondi per gli arazzi raccontando che Lodi e Giovanni Balbani, un mercante di Lucca che operava ad Anversa con gli Affaitati, avrebbero valutato la serie completa e spiegava che Balbani gli doveva ancora 250 monete d'oro ed aveva rifiutato ulteriori crediti. Successivamente, il 31 agosto 1547, Baudouyn scrisse nuovamente a Gonzaga dicendo di essere felice se "Jehan Baptiste Lodi pittore" avesse valutato le tappezzerie ultimate. Il 10 febbraio 1552, si sa che lo stesso Lodi scriveva da Lier una lettera, come consulente di Ferrante Gonzaga per una serie di arazzi che il governatore intendeva commissionare, senza specificarne il nome, ad un tessitore di Bruxelles che poi avrebbe tessuto l'arazzo della conquista di Tunisi per Carlo V. Anche se Lodi non ha menzionato il suo nome, questo tessitore deve essere stato Willem de Pannemaker, il cui marchio appare nella Conquista di Tunisi. La serie di arazzi senza nome che Gonzaga avrebbe voluto commissionare era probabilmente quella dei Puttini, che sarebbe stata infatti tessuta da Pannemaker tra il 1552 e il 1557, sulla base di un disegno di solito attribuito a Lodi.
Gli arazzi in questione includevano fili d'oro e argento, un particolare che ha permesso di identificarli con una serie di “Puttini” ora in una collezione privata. Questi ultimi presentano gli stessi tratti di una serie realizzata a Mantova per il fratello di Ferrante, Ercole, sui disegni eseguiti da Giulio Romano nel corso degli anni Quaranta. Nel gruppo di Ercole, però, i putti tra i vigneti sembrano recare in sè un simbolismo eucaristico, mentre il motivo presente nella serie di Ferrante sembra piuttosto un'evocazione dell'età d'oro, un soggetto che bene si legava al nuovo ruolo di governatore dello Stato di Milano. Stilisticamente, le figure dei putti e le composizione degli arazzi con i Puttini di Ferrante hanno molto in comune con le figure e i paesaggi del “Fructus belli” e delle “Storie di Mosè”, e uno degli arazzi dei Puttini rappresenta edifici che sembrano ricordare la Villa Gualtiera, la casa del governatore milanese.
Storie di Mercurio ed Herse
Per queste ragioni si è ipotizzato che l'ideazione e la progettazione dei cartoni dei tre gruppi di arazzi siano opera dello stesso atelier di pittori e disegnatori, e in forza del ruolo avuto da Lodi nei negoziati per l'esecuzione della serie dei Puttini, Delmarcel ha suggerito la sua partecipazione anche alla stesura dei cartoni preparatori. Solo nuove ricerche d'archivio, unite ad uno studio approfondito dei modelli della serie di Mosè, potranno meglio delineare l'identità e il carattere di questo artista cremonese, che avrebbe potuto avere un ruolo anche molto più importante di quanto non sia stato ancora identificato, per la progettazione e la preparazione dei cartoni di alcune delle più importanti tappezzerie dei 1540.

Come ha rilevato Nello Forti Grazzini, un'altra serie che richiede ulteriori ricerche in questo contesto è quella degli otto pezzi che costituiscono le “Storie di Mercurio e Herse”, di cui esistono esemplari di altissima qualità, come abbiamo detto al Metropolitan Museum, al Quirinale e in varie collezioni spagnole private. Il gruppo più recente porta il marchio di una tappezzeria identificata con la bottega di Dermoyen, mentre in seguito compare il segno di Willem de Pannemaker. Sulla scorta della storia raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, la serie rappresenta figure idealizzate in paesaggi italiani eseguiti dal vivo, con echi di modelli di scuola raffaellesca in diverse scene. Sulla base di considerazioni stilistiche, la stesura di questa serie può probabilmente essere collocata alla fine degli anni '40. Le citazioni dai disegni della scuola di Raffaello hanno condotto i cgli studiosi precedenti ad ascrivere la storia di Mercurio e Herse a una varietà di allievi del maestro, tra cui Giovanni Francesco Penni e Tommaso Vincidor. Tuttavia, la probabile data di stesura della serie e gli evidenti caratteri stilistici che la legano agli arazzi del “Fructus belli” e alle “Storie di Mosè” suggeriscono che la serie è stata progettata e creata dallo stesso gruppo di disegnatori e cartonisti che risentono degli elementi di scuola raffaellesca trasmessi attraverso l'officina di Giulio Romano a Mantova.

sabato 7 ottobre 2017

A Voltido il "nostro" Novecento

Un gruppo di comparse alla cascina Badia
“Novecento”, l'affresco disincantato del secolo breve di Bernardo Bertolucci, è tornato restaurato al Festival dei cinema di Venezia e sarà di nuovo nelle sale ad aprile 2018. Un'occasione per andare a rivedersi un film che ha fatto storia, girato tra la bassa cremonese, parmense e reggiana con gente della bassa. Quando, dopo 11 mesi di riprese, il regista annunciò la fine del lavoro sul campo, se ne erano già andati 160.000 metri di pellicola. Il primo giro di manovella era stato il 2 luglio 1974 e la lavorazione si è svolta quasi interamente nella bassa zona intorno a Parma,  tra Busseto, Mantova, Poggio Rusco, Rivarolo del Re e Guastalla . A Rivarolo Bertolucci ci era già arrivato qualche anno prima, nel 1969, in cerca di una location per “La strategia del ragno”, aveva visto la balera di Maria Priori e l'aveva affittata per girare una delle ultime scene, quella del ballo all'aperto al ritmo di “Giovinezza”. Aveva anche conosciuto Piero Longari Ponzone, nella cui villa aveva girato alcune scene, per poi sceglierlo per sostenere il ruolo del cavalier Pioppi, facendolo sposare nella finzione ad Alida Valli in “Novecento”. Per cui, quando quella mattina del 17 ottobre 1964, Bertolucci fu visto passeggiare nelle strade di Piadena, la gente non si stupì. Si sapeva che da qualche giorno il regista aveva affittato, sembra per due mesi, la cascina Badia. Nei giorni precedenti, inoltre, Bertolucci aveva reclutato un gruppo di ragazzi che gli erano serviti come comparse in alcune scene girate a Busseto. Per il regista di Parma si trattava di un ritorno nelle campagne cremonesi: alcune riprese della prima parte del film erano state effettuate tra Casalmaggiore e San Giovanni in Croce, tra il parco della villa e la cascina Fenilone. La troupe, per tutta la durata delle riprese, aveva la propria base alla cascina “Corte delle Piacentine” nei pressi di Roncole Verdi, frazione di Busseto, dove abitavano stabilmente una trentina di persone tra cui Demesio Lusardi  a cui Bertolucci affidò il ruolo di Censo Dalcò. Nel mantovano la troupe girò alcune scene al santuario delle Grazie di Curtatone e in una villa di San Prospeto a Suzzara, mentre nel cimitero vecchio di Poggio Rusco venne girata l'esecuzione del fascista Attila. La festa dei contadini è invece localizzata nel grande fienile a tre navate della cascina Badia di Voltido, simile alle volte in laterizio di una cattedrale. E' qui, che una fredda mattina autunnale, arrivò il cronista de “la Provincia”, Giuseppe Ghisani, a cui dobbiamo il racconto delle riprese girate in cascina:

Il set sotto il barchessale
Anche alla Badia, la vecchia cascina di Bellingeri a Voltido, si fa festa. Nella vasta aia in terra battuta con al centro il rosone in pietra è l'animazione che caratterizza le occasioni come questa. Donne e bambini in promiscuità, le prime hanno smesso il grembiule di tutti i giorni e hanno tirato fuori dal comò il vestito nero lungo fino ai piedi e lo scialle trapuntato, dello stesso colore, che adesso portano in testa e che scende fin sotto le spalle; i secondi avvolti nei loro tabarri e in testa il cappello nero dalle falde larghe e dritte. Dal fienile sotto il lungo e fantastico barchessale giungono le note di una mazurca, al suono delle trombe e dei clarini di alcuni musici si balla e si gioca sulla paglia, senza curarsi troppo della nebbia che s'infiltra fin lassù e del freddo che il tepore della stalla sotto non riesce a mitigare. E' una scena d'altri tempi, trenta, quaranta cinquant'anni fa, ma che ritorna grazie alla magia del cinema; gli uomini e le donne con i vestiti buoni raggruppati nell'aia sono le comparse, tutta gente di Voltido e dei paesi attorno, che aspettano il segnale per salire sul fienile a far da corona alla festa che si sta 'girando'. Dice una donna florida e bersagliera a dispetto dell'età non più giovane: «Mi danno diecimila lire al giorno, però c'è chine prende di più, venti, anche venticinquemila, ci pagano a seconda della parte che abbiamo». C'è anche suo marito tra le comparse, un uomo robusto quanto lei, baffi folti macchiati di bianco, portamento fiero. Le comparse, persone anziane per lo più, sono state reclutate con manifesti a Voltido e nella zona, è gente umile, semplice, il regista ha scelto quelli i cui volti meglio si collocano nella sua storia, e devono essere volti di contadini degli anni Venti, smunti e magri per gli stenti della fame. E il set di 'Novecento' che il regista Bernardo Bertolucci da alcuni giorni e fino a martedì ha trasferito a Voltido dove sotto il barchessale della Badia ha ambientato questo ballo di contadini al centro del quale sono i protagonisti dell'intera vicenda filmica, vale a dire gli attori Robert De Niro, Gerard Depardieu, Dominique Sanda e Stefania Sandrelli. I primi due sono i nipoti di due vecchi patriarchi: Burt Lancaster, un proprietario terriero dal nome, Berlinghieri, simile nel suo a quello del 'padrone' della Badia, Bellingeri, che ha come antagonista Sterling Hayden, un contadino, Dalcò; le due attrici sono le loro mogli. Il film vuole essere un grandioso affresco di settant'anni di vita padana vista attraverso le vicende dei componenti di queste due famiglie affiancati in un eterno conflitto sociale e uniti da una indissolubile amicizia.
La presenza della troupe è un avvenimento per Voltido, un paesino di duecento anime, che in questi giorni conosce un'animazione insolita. Sull'aia della Badia, tra le comparse in attesa, non mancano i curiosi. È davvero una gran festa, ci sono anche il segretario comunale ed il maresciallo dei carabinieri. Sembra che in un primo momento padron Bellingeri non volesse concedere la sua cascina alla troupe di Bertolucci; a convincerlo sarebbe intervenuto il farmacista che nei nostri paesi è ancora un'autorità. Parlando del suo film Bertolucci ha detto: «E' la storia di due personaggi che fatalmente nascono lo stesso giorno, un mattino d'estate all'inizio di questo secolo. Uno è figlio del padrone, l'altro del contadino. E' la loro storia, ma ci sono molte altre cose (le prime lotte dei lavoratori dei campi contro i padroni, gli scioperi del 1908, il periodo fascista, quello della Resistenza, ndr). Nel film c'è una 'giornata simbolo', il 25 aprile 1945, che contiene tutto il secolo, non solo il passato ma anche il presente». Bertolucci ha anche detto: «Questo è un racconto che coinvolge non solo i miei ricordi, ma anche quelli di mio padre, di mio nonno». I suoi ricordi. Sono quelli di un ragazzo che ha vissuto nella bassa – è parmigiano – e che ora nella bassa, lascia volutamente senza confini a significare l'universalità del rapporto che unisce e divide i protagonisti del racconto cinematografico, ha calato il suo 'Novecento'. Mi spiega Bertolucci che nei suoi ricordi di bambino ci sono cascine grandi, immense, che sono tali proprio perchè allora le vedeva così. E queste dimensioni ha cercato di rispettare nel suo film. A Buseto sta girando in un cortile vastissimo, adesso sopra questo fienile incredibile tant'è maestoso.
Nell'aia della cascina Badia
Come vi è giunto? Perchè l'ha scelto? E' arrivato fin qui per caso – precisa - andando in giro, guardando, chiedendo, cercando luoghi e creando situazioni sempre corrispondenti alla geografia dei suoi ricordi. Ha scelto questo fienile e non un altro «perchè è talmente grande e bello da sembrare costruito in uno studio di posa invece è reale, vero». Sul fienile l'ambientazione è curata nei minimi particolari: gli abiti degli attori e delle comparse come quelli che si portavano nel 1920, qualcuno autentico, gli altri opera della sarta della troupe; la pista da ballo improvvisata ai piedi delle balle di paglia sopra le quali sono i musicisti, un'orchestrina estemporanea che suona valzer e mazurche; la nebbia che inonda gli ampi volti del barchessale creata artificialmente da una macchina spruzzatrice manovrata sotto da un operatore. Il tutto nell'atmosfera rarefatta e struggente della rievocazione creata attraverso un sapiente ed equilibrato dosaggio delle luci che il technicolor renderà magnificamente.
In fondo al fienile è piazzata una rudimentale cucina da campo. Su fuoco, immerse in un pentolone colmo di olio, friggono le frittelle,sul tavolo bottiglioni e bottiglie di vino. Qualcuno abbrustolisce castagne sopra i generatori della corrente. Fa freddo. Tra un ciak e l'altro Stefania Sandrelli, intirizzita, si rifugia accanto al fuoco e cista fino all'ultimo, Dominique Sanda si avvolge le gambe in una spessa coperta, le comparse fugano il pericolo di congelamento mangiando frittelle. Poi Bertolucci, lasciato il giornalista curioso ed indiscreto, chiamerà tutti un'altra volta e sul fienile della Badia la lunga vicenda contadina del Berlinghieri e del Dalcò si arricchirà di nuovi fotogrammi.

Nel corso delle riprese vi furono anche inconvenienti, come quello accaduto nella notte del 30 novembre 1974, quando un incendio 'controllato' acceso per esigenze di scena durante la lavorazione del film si trasformò in un incendio reale. La troupe aveva girato a Polesine Parmense, un paese sul Po, la scena dell'incendio, provocato dai fascisti, di una casa del popolo, utilizzando un vecchio stabile fuori del paese. A scena conclusa, gli addetti avevano spento tutto. Qualche focolaio doveva essere però rimasto e durante la notte il fuoco si estese sviluppandosi nella mattinata nei piani superiori e nel sottotetto. Fu necessario l'intervento dei vigili del fuoco per avere ragione delle fiamme.
In un'intervista rilasciata nel 2006 a Giacomo Papi Bertolucci ricorda un episodio curioso con protagonista Pierpaolo Pasolini che nelle stesse settimane stava girando a Mantova “Salò”: “Lui girava Salò vicino, a Mantova. Così, il giorno del mio compleanno, organizzammo una partita di calcio. Vinse Novecento, ma fu molto peggio di Moggi e della corruzione di oggi. Dovevano giocare le due troupe, invece, dopo i primi cinque minuti, notammo visi sconosciuti in entrambe le squadre. Qualcuno ci disse che avevano chiamato dei professionisti, riserve del Parma, giovani della Lazio… Una ventina di minuti prima della fine, Pier Paolo chiese di uscire perché non gli passavano la palla, erano diventati tutti furiosi… Alla fine era molto di malumore. Aveva visto una tendenza anche in ciò che lì era avvenuto”.


Il film narra la storia di due italiani nati entrambi il 27 gennaio 1900 nello stesso luogo (un'azienda agricola emiliana), ma su fronti opposti: Alfredo è figlio di ricchi proprietari, i Berlinghieri, Olmo è figlio di Rosina, contadina, della medesima azienda. In una scena si vede Giovanni padre di Alfredo, che pronuncia parole affettuose nei confronti di Olmo invitandolo dolcemente a rientrare in casa, potrebbe lasciar intendere che Alfredo sia fratellastro di Olmo. Le lotte contadine e la Grande Guerra dapprima, e  il fascismo con la lotta partigiana per la Liberazione poi, sono al centro dei fatti che si susseguono, con al centro, e per il filo conduttore, la vita dei due nemici–amici, impersonati in età adulta da Gèrad Depardieu (Olmo) e da Robert De Niro (Alfredo). Burt Lancaster, nel ruolo del nonno di Alfredo, e Donald Sutherland nel ruolo violento, cinico e spietato Attila, chiamato con la sua ferocia asservita al potere e rappresentare l’arrivo devastante del fascismo in un paese dove la ricca borghesia iniziava a temere le varie organizzazioni socialiste a difesa dei lavoratori, sono alcuni degli altri indimenticabili volti di questa pellicola. L’ultima parte del film si riallaccia alle scene iniziali, quando, durante il sospirato giorno della Liberazione, Attila viene finalmente giustiziato nel cimitero, di fronte alle tombe delle sue vittime, e Alfredo viene preso in ostaggio da un ragazzino armato di un fucile ricevuto dai partigiani. Olmo, creduto morto, ricompare ed inscena un processo sommario al Padrone Alfredo Berlinghieri. Il legame di amicizia prevale e Olmo “condanna” Alfredo ad una morte virtuale (in realtà sottraendolo al linciaggio), inizialmente poco compresa dagli altri paesani, ma alla fine coralmente accettata con una sfrenata e liberatoria corsa nei campi, sotto l’enorme bandiera rossa cresciuta e tenuta nascosta durante il ventennio. Sopraggiungono, con autocarri, rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale, incaricati del disarmo dei partigiani. Proprio Olmo accetta per primo di deporre il fucile dopo aver sparato in aria per simboleggiare l’esecuzione della parte vile e malvagia del suo amico più caro. Alfredo ed Olmo iniziano così a scherzare di nuovo, accapigliandosi come bambini. Il film si chiude su due amici che, ormai anziani, continuano ad azzuffarsi nei luoghi dell’infanzia, con Olmo che continua, come faceva da bambino, a sentire la voce del padre ( mai conosciuto) in un palo del telegrafo e Alfredo che goliardicamente si uccide come da piccolo si stendeva per gioco e imitando lo spericolato Olmo sulle traversine dei binari del treno in arrivo. 

mastro Maffiolo, vetraio e arazziere

Le vetrate dell'abside del duomo di Milano
Il duomo di Milano possiede straordinarie vetrate gotiche che costituiscono un'affascinante Bibbia luminosa ed uno dei più interessanti esempi dell'arte vetraria italiana. La loro stesura seguì passo passo le vicende edilizie del cantiere quando già nella prima fase dei lavori si presentò il problema di chiudere con vetri le grandi finestre. La prima soluzione proposta nel 1397 prevedeva semplicemente la messa in opera di vetri colorati, ma già qualche anno dopo si decise di dare alla finestre delle vetrate istoriate, decorate in modo da costituire il racconto visivo con cui Dio si manifesta al suo popolo attraverso la luce, immagine stessa di Cristo. Il cantiere, in realtà, si è chiuso solo nel 1988 con il compimento delle finestre sulla facciata, dopo sei secoli di lavori in cui si sono alternati i maggiori maestri vetrai, da Michelino da Besozzo a Stefano da Pandino, da Pellegrino Tibaldi all’Arcimboldo, oltre a un’infinita serie di maestri lombardi, fiamminghi e internazionali come l’ungherese Giovanni Hajnal dell’ultimo lavoro. E tra i primi artisti che si cimentarono nell'impresa vi fu anche un cremonese, ricordato nei Registri della Veneranda Fabbrica del duomo di Milano con il nome di Maffiolo, non solo in qualità di “magister” vetraio, ma anche come “rechamatorem”, cioè arazziere. Di questo artista sicuramente importante, almeno a giudicare dalle vicende in cui fu coinvolto a Milano, e della sua famiglia, non è rimasta alcuna traccia negli storici locali. Al punto tale che si è pensato che in realtà la sua formazione artistica sia avvenuta a Milano, dove potrebbe essere giunto al seguito di Bonino da Campione, lo scultore campionese attivo nel duomo di Cremona agli esordi della sua carriera, che nel 1357 aveva firmato il sarcofago di Folchino Schizzi, oggi collocato sotto la Bertazzola alla destra del protiro maggiore della Cattedrale. Bonino, destinato a diventare nel corso del XIV secolo il maggior rappresentante della produzione plastica lombarda, era entrato a far parte del Consiglio della Fabbriceria del duomo milanese nel 1388, dopo essere stato nel corso degli anni Settanta uno degli scultori preferiti dai Visconti. Qui Bonino lavorò fino al 1397, contemporaneamente a Iacopo da Campione, autore della lunetta della porta della sacrestia settentrionale e ingegnere della Fabbrica accanto a Giovannino de' Grassi che, con le sue ricerche naturalistiche, rappresentava il maggior interprete dell'arte gotica lombarda, precedente gli influssi che avrebbe poi esercitato il gotico internazionale. Sono gli anni in cui gli artisti lombardi difendevano la tradizione locale contro gli influssi delle maestranze tedesche, rappresentate dallo scultore Hans Fernach e dall'architetto Heinrich Parler di Ulma.
La creazione degli animali e delle piante
Conclusasi questa fase con la morte dei suoi protagonisti, il panorama degli scultori presenti a Milano fu dominato da personalità come Jacopino da Tradate, Matteo Raverti e Niccolò da Venezia, che operarono secondo i modelli loro forniti da Paolino da Montorfano e Isacco da Imbonate. Paolino da Montorfano è il più antico pittore con questo cognome, ricordato nelle carte dell'archivio della Fabbriceria, quando il 3 agosto 1402 si offriva per dipingere alcune storie di santi per le vetrate del duomo. Allo stesso anno risale la prima citazione del nostro Maffiolo come vetraio e come "magister" impegnato nella fase di costruzione e decoro architettonico dell'edificio. Maffiolo compare in un documento del 30 maggio 1402 come membro della commissione chiamata a giudicare il disegno per il finestrone centrale dell'abside del duomo, progettato da Filippino da Modena: è indicato come il disegnatore e il supervisore del tondo con la "collumbeta", l'aquila che orna lo straforo terminale della finestra. Due sculture in marmo serpentino con lo stesso soggetto, che con questa denotano evidenti somiglianze formali, conservate oggi al Museo del Duomo di Milano senza che ne sia conosciuta la provenienza, potrebbero essere ricondotte alla progettazione ed esecuzione da parte di Maffiolo che, dunque, sarebbe stato anche scultore. Si è ipotizzato infatti il suo intervento anche per un capitello pensile dello zoccolo esterno del duomo raffigurante una Testa di vecchio con grappolo d'uva, già attribuito a maestranze nordiche attive nel cantiere alla fine del XIV secolo, ma riconducibile a Maffiolo per il confronto con le linee nette e flessuose della "collumbeta" e la somiglianza con il volto del Padre Eterno, effigiato nelle vetrate che l'artista cremonese realizzò a partire dal 1417.
Nel 1429, però, Maffiolo è indicato nei documenti anche come "magistrum rechamatorem", a testimonianza della particolare eccellenza in quest'arte, della quale però nulla è rimasto. Non è un fatto strano, dal momento che nel medioevo sono noti casi di grandi artisti che praticarono più di un'arte, senza dimenticare il fatto che Maffiolo proveniva da una città dove la fabbricazione ed il commercio dei panni di lino e di cotone era fiorente fin dalla metà del Duecento e non è fuori luogo ritenere che, accanto a tessitori, curatori, manganatori e tintori vi fossero anche artisti impegnati in questo tipo di lavorazione. A Pavia, ad esempio, nel 1410 era attivo come ricamatore Teodorico di Fiandra, mentre nel 1420 è ricordato a Mantova come”tapezarius” e “magister a paramentis” un certo “Zaninus de Francia” che avrebbe fornito disegni per arazzi. Un altro “Francisco de Mantua” è citato in alcuni documenti degli Archivi Vaticani come “rechamatori” tra il 1417 ed il 1420. Francesco Malaguzzi Valeri ricorda un certo Stefano ricamatore che nel 1456 aveva impegnato a Soncino una stoffa sottratta al conte Carlo da Motone, e nel 1459 un tessitore, Pietro Mazzolino, che aveva aperto a Milano un laboratorio di velluti e sete ricamate.

La creazione dell'Universo
Il maggiore impegno di Maffiolo nella Fabbrica del duomo fu senz'altro nell'ambito della realizzazione delle vetrate del coro, di cui restano solo pochi antelli sopravvissuti alla distruzione e agli spostamenti ottocenteschi. Si tratta delle vetrate con la Creazione degli animali e delle piante, della creazione dell'Universo e della creazione dell'uomo già assegnati da Monneret de Villard a Niccolò da Varallo ma riportate poi a Maffiolo in seguito al ritrovamento di numerosi pagamenti per la loro esecuzione. La messa in opera di vetrate istoriate nel duomo milanese era cominciata agli inizi del XV secolo con la commissione delle finestre della sacrestia, per eseguire le quali arrivarono Antonio da Cortona e Niccolò da Venezia. Con il procedere dell'elevazione dell'edificio, seppur relativamente tardi, nel 1414 i fabbriceri Beltramino da Bollate e Giorgio de Lavizzi vengono incaricati di cercare un artista che sia in grado di decorare con vetrate i tre grandi finestroni dell'abside, dopo la conclusione del grande rosone centrale della Raza dedicato al duca Galeazzo Visconti. Un'impresa colossale che avrebbe comportato la realizzazione di trecento antelli rettangolari ed altrettanti per i tre rosoni. Scelgono Zanino Angui de Normandia a cui vengono consegnati vetro, ferro e piombo, ma intanto vogliono verificare anche le capacità dei numerosi artisti locali che nel frattempo si sono offerti, tra cui Maffiolo da Cremona e Franceschino Zavattari. Maffiolo è già impegnato in diversi lavori, ed è di volta in volta indicato come recamatorem‘, ‘de la rama’,’faber’; Franceschino invece appartiene alla famiglia degli Zavattari, famosi frescanti. Nessuno di loro in effetti è uno specialista maestro vetraio. Il 29 febbraio 1416 Zanino Angui presenta un gruppo di antelli già eseguiti ad una commissione di esperti, tra cui vi è anche un altro cremonese, Stefano da Pandino, abitante a Milano dove conduce una bottega di pittore insieme al padre Lanfranco. Evidentemente allettato dalla possibilità di lavorare nel cantiere del duomo, lo stesso Stefano qualche mese dopo presenta un antello di prova offrendosi di eseguirlo a proprie spese purchè gli venga messo a disposizione il materiale necessario. I fabbriceri, a loro volta pressati dalle difficoltà economiche, nel 1417 accettano la proposta e riforniscono Stefano di una grande quantità di vetro necessario alla realizzazione di venti antelli e alla fine di ottobre assegnano a Maffiolo l'esecuzione delle altre due finestre absidali, dopo un duro confronto con Franceschino Zavattari, a cui erano state appaltate in un primo tempo. Per eseguirle Franceschino si era impegnato ad acquistare il vetro a proprie spese, ma evidentemente non aveva convinto del tutto la Veneranda Fabbrica, che aveva preferito anticipare invece 540 lire a Maffiolo. 
La creazione dell'uomo
Nel maggio del 1418, al momento della consacrazione dell'altare maggiore da parte del papa Martino V, provenente da Basilea e diretto a Roma, le vetrate non sono ancora pronte ed i nuovi pannelli vi sono apposti in modo provvisorio. Il 10 marzo 1420 i venticinque antelli di Maffiolo, costituenti il primo quarto della vetrata, vengono esaminati dalla commissione della Fabbrica, tra cui anche un esperto, Tomaso degli Umiliati di Brera. Ma vi è un ritardo nell'esecuzione dei pannelli, ed inizia un contenzioso con la Veneranda Fabrica, a dirimere il quale viene chiamato nell'agosto Michelino da Besozzo, "pictorem superno et magistrum a vitratis in totum". Nei dieci mesi successivi Maffiolo realizza e consegna un altro quarto del finestrone e nell'agosto del 1421 ha finalmente fine con il pagamento di 22 antelli per la vetrate grande. Nel 1424 è registrato il pagamento del lavoro e l'anno successivo gli viene fatto credito per la concessione di altro vetro insieme con Paolino da Montorfano.

L'ultima opera documentata di Maffiolo è del 1427: si tratta della commissione di due insegne di Filippo Maria Visconti da porre sopra uno stendardo in campo d'oro, per le quali gli furono computate le spese per l'oro, l'argento e la seta. Un'attività legata evidentemente alla sua competenza di "magistrum rechamatorem", che testimonia gli ambiti dell'attività figurativa della sua bottega, continuata presumibilmente dal figlio Giovanni. Di Maffiolo non è nota né la data né il luogo della morte.