martedì 27 marzo 2018

Quando le case erano chiuse

Casa di tolleranza negli anni Venti
Il 20 febbraio 1958, sessant'anni fa, il Parlamento approvò la legge n.75, più nota con il nome della sua creatrice, la senatrice socialista Lina Merlin. La legge aboliva la regolamentazione della prostituzione in Italia e, di conseguenza, portava alla chiusura delle “case chiuse”, che avvenne nel giro dei sei mesi successivi, il 20 settembre 1958. L’intento era quello di contrastare lo sfruttamento delle prostitute. L’iter della legge Merlin era stato molto lungo (la prima bozza risaliva al 1948) e contrastato: la proposta creava, infatti, una spaccatura trasversale nell’opinione pubblica italiana. Fra gli oppositori, Indro Montanelli pubblicò nel 1956 un pamphlet polemico intitolato “Addio, Wanda!”, che, in un certo senso, rispondeva al libro pubblicato l’anno precedente da Carla Voltolina, moglie del futuro Presidente Pertini, e dalla stessa Lina Merlin, intitolato “Lettere dalle case chiuse”, che raccoglieva 70 lettere ricevute dalle ragazze delle case di tolleranza e dal personale di servizio. Alcune favorevoli, altre contrarie alla chiusura. La senatrice Angelina Merlin, detta Lina, era stata maestra elementare della provincia di Padova, classe 1887, partigiana.
Durante il periodo fascista Angelina era stata spedita al confino in Sardegna perché aveva rifiutato di aderire al regime. Dopo la proclamazione della Repubblica, è stata l'unica donna nella prima legislatura repubblicana, eletta con il partito socialista. Si racconta che quando la sua discussa proposta di legge arrivò in Parlamento Lina invitò Pietro Nenni ad ordinare al partito di votare a favore. «Altrimenti – disse – farò i nomi dei compagni che sono proprietari di casini». E lui: «Dio mio, Lina, e come faccio ad avvertirli tutti?».
Dal 1958 ad oggi, il tema della prostituzione continua a rimanere al centro del dibattito politico e innumerevoli sono state le proposte, anche recentemente, di variazione e di revisione della legge n.75. Al momento dell'approvazione della legge le "case chiuse" erano 560 e ospitavano circa 2.700 prostitute.
Quando, con l'applicazione della legge Merlin, il 20 settembre 1958 vennero chiusi i bordelli, a Cremona erano presenti una settantina di prostituite distribuite in sette case di tolleranza. Bordelli esistevano però anche a Crema, in via Vico Sala 9 e a Casalmaggiore, in via Centauro 23. Le case chiuse cremonesi erano in via Bardellona, in via De Stauris, in via dei Dossi, in via Cavitelli, in via Fogarole e in via Castore Polluce. I peggiori lupanari si trovavano in via Bardellona, all’angolo con via Aselli, e in via Vacchina, una laterale di via Bissolati. Il “Vacchina” era uno dei noti casini che esistevano nella zona di porta Po, l’altro era in vicolo Dei Dossi. Il “Vacchina” era diretto dalla signora Maria, una corpulenta matrona sulla cinquantina dalle labbra rosso corallo. Anche l’altro bordello di via Dei Dossi era abbastanza declassato. Il tenutario era chiamato “el padròon de le vache” e disponeva di un nugolo di scugnizzi che durante la presenza delle truppe americane in città, andavano alla ricerca dei “boys” da portare al casino. Ed in cambio, quale ricompensa, ricevevano la possibilità di dare una sbirciatina a qualcuna delle signorine del casino, quando riuscivano a racimolare almeno quattro clienti. In via Bardellona i casini erano due: il primo era situato verso la curva di via Aselli, il secondo un po’ più all’interno. Quello verso via Aselli era squallidissimo e frequentato da nugoli di militari. Le prostitute vestivano sottovesti nere lerce, mentre i clienti aspettavano il loro turno su panche in legno in condizioni peggiori di quelle delle stazioni ferroviarie. Il secondo bordello di via Bardellona era invece un po’ più dignitoso: la tenutaria si chiamava Carlina, era un donnone con un grembiule nero che inforcava occhiali cerchiati in metallo che la facevano sembrare più un’oblata che una maitresse. Il personaggio più noto del mondo del piacere nostrano era però la Egle, tenutaria del casino di via Fogarole. Tarchiata, dai capelli giallo polenta, la voce rauca per le molte sigarette. Un giorno nei pressi del suo bordello avvenne un fatto di sangue: uno spazzino uccise l’amante a colpi di pistola. Quando fu celebrato il processo la Egle venne chiamata in qualità di testimone e i cremonesi che affollavano l’aula per il clamore suscitato dall’omicidio passionale, manifestarono un certo imbarazzo non sapendo se salutarla o meno. Un altro noto casino era il “Belfiore” di via Cavitelli, molto trascurato: la casa era buia, i divani su cui sedevano i clienti in attesa erano ormai sfondati con le molle che uscivano dal fondo, ma il bordello era frequentatissimo per la bellezza di alcune delle ragazze che periodicamente vi lavoravano. Il bordello più elegante era in ogni caso il Polluce di via Castore Polluce, una laterale di via Milazzo, nei pressi della chiesa protestante. Era il ritrovo più caro di Cremona, dove ogni consumazione superava di 150 lire le tariffe fissate per le altre case di tolleranza cremonesi. L’interno era grazioso e l’arredamento di buongusto. La tenutaria era una certa Mimma, milanese, esile, intelligente, di buona cultura, che contrastava con la portinaia, un donnone di 120 chili che incuteva terrore. Il Polluce era frequentato dalla Cremona “bene” e vi si usava il “libero”: in buona sostanza il cliente di rispetto aveva facoltà di scegliere la ragazza da solo. Per quanto riguarda l’origine, le ragazze che esercitavano a Cremona erano principalmente venete. Vi erano anche alcune milanesi, qualche meridionale e molte emiliane.
Le case di tolleranza cremonesi furono anche spesso al centro di episodi di cronaca nera, a causa dei loro frequentatori. Non erano rari i sequestri di armi e di droga, soprattutto cocaina. Per questo motivo, ad esempio, fu chiusa nel novembre 1928 la casa di tolleranza di via Villa Glori 14 e la sua tenutaria Annita Bellotto condannata a sette mesi di carcere e 3500 lire di multa. Ad altri sei mesi di carcere e mille lire di ammenda fu condannato nell'aprile 1929 un certo Emilio Medica per aver mantenuto aperto un bordello non autorizzato. Altre volte le condanne riguardavano l'adescamento all'esterno della casa, come nel caso di due prostitute che sostavano davanti all'ingresso di vicolo Traverso 10 “richiamando in tal modo l'attenzione dei passanti”, e della tenutaria del bordello, che si presero un mese di carcere sempre nel giugno del 1929. Nel giugno del 1951 venne arrestato un giovane macellaio per aver colpito al volto una ragazza di una “casa chiusa” rompendole il setto nasale.

In epoca storica la presenza di case di tolleranza organizzate è documentata fin dal XIV secolo, come ha dimostrato la giovane studiosa Barbara Venturini nella sua tesi di laurea “La prostituzione a Cremona nella prima età moderna” presentata presso l'università degli studi di Pavia nell'anno accademico 2009/2010. La normativa del Trecento prevedeva l'allontanamento delle meretrici dalla Cattedrale, dove probabilmente si recavano per adescare clienti, dalle maggiori piazze e dalle vie, dove era loro proibito di transitare durante il giorno. Le prostitute erano, quindi, obbligate a risiedere all'interno del postribolo, dal quale non potevano allontanarsi per più di dodici metri.
Un'ulteriore norma prevedeva la presenza di un postribolo solo all'interno dei confini della piazza, forse spiegabile con il mutato atteggiamento dei governi che avevano intuito l'utilità sociale e soprattutto economica della prostituzione. Anche i documenti d'archivio confermano l'esistenza di un postribolo nella città negli anni precedenti al 1559. Nonostante questa attenzione alle meretrici erano imposti particolari vincoli: anche a Cremona erano costrette a portare un mantello di fustagno bianco di riconoscimento e non potevano circolare all'interno della città se non nei giorni e negli orari consentiti. Le meretrici, secondo gli “Ordini fatti sopra il vestire” del 1572, non potevano portare oro, argento, capi di seta, gioielli e perle, erano obbligate ad indossare una berretta senza alcun tipo di ornamento, e una “cintola” o banda rossa che pendesse per tutta la lunghezza del vestito. Non potevano abitare nelle vicinanze della città e dei sobborghi cremonesi, se non nei
luoghi destinati ai postriboli, in caso contrario avrebbero dovuto pagare una pena di venticinque lire imperiali. Le stesse meretrici, ma anche terzi, non potevano gestire un postribolo all'interno dell'area della Cittadella, compresa tra piazza del Duomo, piazza Stradivari e piazza della Pace, pena una multa e la cacciata dal luogo. A loro era consentito uscire dal postribolo solo il sabato per effettuare la spesa, mentre in tutti gli altri giorni della settimana non potevano muoversi in città, a meno che indossassero il mantello di riconoscimento lungo fino ai gomiti. Quelle che contravvenivano agli ordini potevano essere spogliate pubblicamente degli indumenti indossati
da parte delle milizie del Podestà.
La prostituzione veniva permessa, ma nessuna persona, però, poteva fermarsi nel postribolo dopo il terzo suono della campana serale, né abitare con le donne né cercare ricovero nelle taverne vicine, pena una multa di cinque libbre imperiali. Gli stessi proprietari delle locande, dove i lenoni erano soliti condurre le donne protette durante la notte, non potevano dare alloggio oltre il terzo suono
della campana né a una prostituta né a un protettore. Lo stesso valeva per le maitresse che erano obbligate inoltre a denunciare la presenza di eventuali lenoni che le prostitute tenevano in casa. La severità dei regolamenti, tuttavia, non impedì che in città sorgessero problemi di convivenza con
il vicinato. Dopo la chiusura del postribolo pubblico nel 1559 le donne venivano ospitate da un certo Tommaso Nuvolone e dalla moglie, detta la Barzotta, nella propria casa nella vicinia di San Sebastiano, fuori le mura della città. Lamentando il disagio causato dalla situazione, i vicini
decisero di chiedere al Senato di Milano di espellerle, ma Tommaso, appellandosi alla mancanza oggettiva di un postribolo, invitò il governo spagnolo a concedergli il permesso di ospitare legalmente le donne pubbliche nella propria abitazione. Con ogni probabilità il permesso non fu accordato, se nel 1576 alcune donne, probabilmente prostitute, vengono censite in una zona diversa della città, dove vivevano da sole in affitto in case situate nella vicina di San Paolo, nella contrada di Santa Tecla che, lontana da luoghi sacri e vicina alle mura, poteva costituire il luogo più adatto
per esercitare il mestiere più antico del mondo. Nel 1592 nella zona di San Bassano, a ridosso delle mura e limitrofa alla vicinia di S. Paolo, le donne che vi vivevano da sole o con figli a carico
erano 59 e, non essendovi l'indicazione della professione, erano quasi sicuramente prostitute.
Di fronte alla presenza del fenomeno della prostituzione dilagantele risposte della città di Cremona furono molteplici. Nel 1587 i membri della Compagnia della Carità istituirono la Casa del Soccorso, nota anche come conservatorio di San Raffaele, nella vicina di Santa Lucia, zona marginale abitata in prevalenza dai ceti popolari e dagli indigenti, per fronteggiare il fatto che “molte giovinette, per non haver parenti, ne altri che buona cura di loro tenessero, facilmente perdevano l'honestà, et la salute insieme, con offesa di Dio, et ruina dell'anime”. Per “rimediare a tali disordini col divino aiuto, et col favore, et auttorità dell'Illustrissimo, et Reverendissimo monsignor Nicolò Sfondrato Cardinale, et Vescovo di detta Città, fondarono, et eressero un luogo pio, comperato à proprie spese da essa Compagnia, chiamato il Soccorso...e dove sotto il reggimento di honeste, et prudenti
persone si riducessero le figlie senza recapito, et pericolose di cader in peccato, et ivi fossero provedute di vivere, et vestire, e amaestrate nella christiana disciplina, et esercitate nelle sante virtù, et honesti costumi. Et poi a suo tempo si procurasse di consegnarle à parenti loro, se pur n'havessero de' buoni, ò di dar loro altro onesto ricapito”. Le giovani che potevano essere ospitate nella casa dovevano avere un'età anagrafica compresa tra i dieci e i trent'anni e un'origine espressamente cremonese. Era assolutamente vietato l'ingresso a “quelle che haveranno perduta la verginità..., le stropiate, ò mal sane, et inferme; non le ispiritate...nè le pazze, purchè l'accesso avvenisse secondo le volontà delle giovani e non su costrizione del padre o della famiglia. Sempre grazie all'azione
della Compagnia della Carità venne fondato nel 1595 il conservatorio di S. Maria Maddalena, che accolse le malmaritate, cioè le donne sposate che si trovavano in difficili situazioni coniugali, le donne in pericolo di perdere la propria honestà e quelle che, dopo averla perduta, desideravano
la redenzione”.

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